lunedì 26 maggio 2014
Arthur Cravan e i cacciatori di idropoti
“Arthur Cravan e i cacciatori di idropoti”
Capitolo 1
In questo libro, si racconta di un
gruppo di coraggiosi cacciatori bretoni che si imbarcò alla volta della Tailandia, per poi
risalire il continente asiatico fino alla Cina. Essi intendevano catturare un
certo numero di idropoti, che sono, come è noto, degli strani cervi privi di
palco, diffusi in Cina e Corea, con zanne prominenti che a noi appaiono
incongrue in quei corpi agili di gazzella. Essi frequentano fiumi e laghi e non stupisce che siamo dei buoni nuotatori.
Fantasticando sulle imminenti avventure e veleggiando al largo di Lisbona, due
di quei coraggiosi, Giuseppe e Beniamino, dialogavano mentre calava la sera e
apparivano nel cielo le prime stelle
“Non vedo l’ora…” esordì Giuseppe,
di mostrare gli idropoti ai nostri compaesani. Si ecciteranno come bambini,
perché gli uomini hanno bisogno di meraviglie come del pane. Se facciamo le cose per bene e li mettiamo in
mostra a pagamento, caro mio, diventiamo ricchi” “E’ possibile” rispose Beniamino “ Ma è
possibile anche il contrario. Non sarebbe la prima volta che qualcuno, dapprima
entusiasta, abbia poi cambiato umore per qualche timore o anche solo per noia.
Ricordi cosa accadde con i lemuri quando si diffusero quelle voci sul fatto che
portassero sventura? Il baraccone fu incendiato e morirono tutti arrostiti,
compreso il guardiano”.
Giuseppe fu contrariato da quelle
parole, sostenne che i lemuri non sono gli idropoti, il che era evidente e che
quella diffidenza danneggiava la spedizione. Beniamino si irritò e dichiarò che
su quella barca non si poteva parlare liberamente. Dopodichè i due vennero alle
mani e se le dettero di santa ragione, e fu necessario tirar loro un paio di secchiate d’acqua per calmarli. Allora
fecero pace e si ubriacarono insieme inneggiando tanto agli idropoti che ai
lemuri.
Capitolo 2
Giunto in vista dell’Africa, il
vascello cominciò ad oscillare e cigolare
per il mare grosso. I coraggiosi esploratori si spaventarono e
ripararono a Gibilterra. Si rifornirono di viveri, visitarono gli angiporti in
cerca di donne e bevvero più di un bicchiere nelle osterie. Qui si imbatterono
nel pugile dadaista Arthur Cravan che spingeva un carretto pieno di poesie.
Alla vista di quel gigante con quel singolare carico, essi trasecolarono neanche
si fossero trovati davanti un idropote in carne ed ossa. Per mascherare lo
stupore tentarono di canzonarlo, ma le dimensioni dell’uomo e l’aspetto poco
rassicurante li fecero desistere. In realtà il gigante non era affatto
pericoloso sebbene avesse sfidato il campione mondiale dei pesi massimi e per
la verità avesse perso. D’altra parte l’intenzione di Cravan non era quella di
vincere, ma di mettersi in mostra e non per vanità, ma per dimostrare che la
vita poteva essere vissuta. Ridotti a più miti consigli, i coraggiosi
esploratori si dettero a rimestare nel carretto e, nel frattempo, il cielo si
rischiarò e il vento calò. Essi presero il fatto come un presagio favorevole e
invitarono il pugile dadaista a salire a bordo.
Felice per la nuova svolta della
sua vita, egli accettò e spinto in mare il carretto, inneggiando alla morte
dell’arte, diventò cacciatore di idropoti anche lui. Durante il tragitto, impiegò
la sua forza nel governare la barca e sollevò anche il morale della ciurma
declamando poesie, organizzando spettacoli e apparecchiando pranzi luculliani
con piatti bizzarri che affermava fossero invenzioni della cucina dadaista.
Quest’ultimo tentativo non fu sempre coronato da successo, perché la cucina
dadaista non era molto apprezzata dai naviganti, i quali la consideravano una
autentica schifezza. Più di una volta i pranzi si conclusero in un lancio di
pietanze all’indirizzo del cuoco, che le afferrava al volo e le rilanciava,
affermando che si trattava di uno sport e anche quello tipicamente dadaista.
Capitolo 3
Giunti nel porto di Colombo, i
Bretoni si riposarono, ma la sosta dovette prolungarsi, perché Cravan scomparve.
Ringalluzzito per il fatto di trovarsi in una colonia dell’Inghilterra, cioè la
grande nazione in cui era cresciuto, il
gigante si era dato alla deboscia e aveva finito per perdersi. Era stato
trovato ubriaco dai servi di un principe cingalese, che l’aveva accolto nel suo
palazzo tempestato di smeraldi, come erano del resto quasi tutti i palazzi dei
principi cingalesi. Il principe, che era un tipo gioviale, progettava di
impegnare quel gigante in spettacoli di lotte
sanguinose, nelle quali generalmente uno dei concorrenti finiva mutilato
o decapitato, quando il principe non si divertiva a farli a pezzi tutti e due. Per
fortuna era ospite del palazzo la bellissima poetessa Mina Loy, che era stata
corteggiata da Duchamp, Picasso, Berenson, Pound e molti altri uomini illustri,
tra i quali Marinetti e Giovanni Papini ed era emigrata in India, forse per
sfuggire al suo ultimo spasimante, Papini, che era francamente bruttino e anche
alquanto antipatico. Ella si innamorò del pugile dadaista e intercesse per lui,
evitandogli una sicura mutilazione. Il loro amore esplosivo durò un giorno,
dopodiché la poetessa dichiarò a Cravan di amarlo troppo e dunque di doverlo
lasciare per sempre. In quanto dadaista, egli comprese la logica di quella
decisione, contento peraltro di aver salvato un arto, se non addirittura la
testa. Si ripresentò barcollante ai compagni, i quali l’accolsero con gioia,
improvvisando canti e balli come mai si erano visti a Ceylon. La nave salpò verso il porto di Prachuap dove
sarebbe partita la spedizione terrestre fino al lago Poyang che si riteneva frequentato da un gran
numero di idropoti. Ma la cura dei
compagni non leniva il dolore del gigante per l’abbandono dell’amata ed egli
cantava sempre più spesso delle strazianti serenate. Dopo l’ennesimo canto, e
una abbondante bevuta, Giuseppe e Beniamino si misero a parlare della musica,
dell’arte e dello scopo di queste attività, almeno per quello che avevano
capito convivendo con un artista dadaista.
“Con tutta la comprensione per
l’amico Arthur…”- disse Giuseppe – “ Ma a me questa canzone fa venire il latte
alle ginocchia. Io credo…”- proseguì – “ Che se una canzone non ti dà la voglia
di vivere, se non ti risolleva un po’, non è una buona canzone, non ti
pare?” “No, non mi pare, caro Giuseppe”
– ribattè Beniamino, qui non si tratta di decidere se questa è una buona
canzone, come dici tu, ma solo di apprezzare una bella canzone e la bellezza,
presa per quello che è, non serve a niente”. A quella risposta, Giuseppe si offese e Beniamino, vista la reazione
dell’amico, affermò che con lui non si poteva discutere perché aveva un pessimo
carattere. I due vennero di nuovo alle mani e bisognò gettargli addosso quattro
secchiate d’acqua per calmarli. Dopodichè furono invitati ad una nuova bevuta e
tutti i cacciatori intonarono, si fa per dire, dei cori ispirati alla caccia e
alla esplorazione di terre sconosciute.
Capitolo 4
Il viaggio via terra non fu meno
avventuroso di quello per mare né l’umore del pugile dadaista migliorò, ma ciò
che colpi gli ardimentosi cacciatori furono i racconti degli indigeni a
proposito del lago Poyang. Questo era il più grande della Cina, ricco di pesci
e di uccelli migratori, ospitava intere colonie di idropoti. il lago aveva perduto molta della sua acqua
ed era affiorato un antico ponte ridotto
a un rudere, che gli conferiva un aspetto alquanto sinistro. Ma non fu il ponte
a spaventare i nostri, quanto le credenze secondo le quali molte imbarcazioni
avventuratesi nel lago, erano misteriosamente scomparse. Si diceva che i pochi
superstiti di quei naufragi avessero perso il senno e l’uso della parola. Per
questo i coraggiosi esploratori non trovarono nessuno che li accompagnasse e
dovettero acquistare una vecchia barca, per solcare le acque di quel lago
terribile. Intanto il pugile dadaista sembrò risvegliarsi dalla abulia e preso da una eccitazione visionaria invocava
la sua dea, che diceva di vedere nel cielo con indosso un mantello variopinto e
con un sombrero in testa, mentre lo chiamava. I coraggiosi esploratori si chiesero
cosa avesse bevuto. Sta di fatto che il gigante abbandonò la spedizione e
viaggiando a ritroso si incamminò verso il porto di Prachuap. I biografi
sostengono che, dopo inenarrabili peripezie, Cravan sia riuscito a ritornare in
patria e aggiungono che, riconquistata la lucidità, si sia imbarcato da solo su
un piccolo vascello alla volta dell’Argentina, dove si trovava l’amata Mina e
sia scomparso per sempre nell’Oceano.
Quanto ai nostri Bretoni, furono anch’essi presi da una inspiegabile
ebbrezza e avanzando nel lago in modo sconsiderato giunsero finalmente ad
un’isola verdeggiante, di cui non c’era traccia nelle carte della marineria
cinese.
Capitolo 5
Le loro menti si placarono e i
nostri scorsero le coste rigogliose dell’isola, ora pianeggianti, ora scoscese,
ricoperte di prati e di boschi e risonanti del canto degli uccelli. Sulle sue rive, c’era una folla in agitazione e abituati
com’erano ai propri costumi temettero che costoro li avrebbero ricevuti a
fucilate. Grande fu lo stupore quando videro una popolazione gioiosa che li
festeggiava con canti e grida di giubilo.
Uomini e donne e bellissime giovinette e giovinetti abbigliati in modo
variopinto e animali di tutte le specie formarono un corteo che li accompagnò ad un meraviglioso palazzo. Alto almeno 20
piani, esso non era tempestato di smeraldi, come quelli dei principi cingalesi,
che erano per la verità alquanto pacchiani, ma
risplendeva alla luce del sole e della luna.
I cacciatori furono condotti per
sale e interminabili corridoi, fino al luogo solenne ma austero nel quale il
governatore, che rispondeva al nome regale di Francis il Saggio Parlante, li
avrebbe ricevuti. Costui, che era un nobile anziano della ragguardevole età di
250 anni, ben portati, aveva una espressione serena e una lunga barba
bianca. Dichiarò di conoscerli bene
perché i suoi funzionari si recavano in Europa a studiarne i costumi e
descrisse poi l’isola e i suoi cittadini, felici e soddisfatti delle leggi che
li governavano. Ma oltre alle istituzioni e alle invenzioni di quel popolo, la
cosa più straordinaria, disse, era la coltivazione di una pianta prodigiosa,
l’Ignatia Aesthetica, che forniva il più salutare dei nutrimenti e poteva
donare al corpo e alla mente la più perfetta beatitudine. Occorreva però
saperla trattare, poiché le sue sostanze erano così potenti che, in dosi non
misurate, rischiavano di condurre alla morte. I nostri compresero che erano
stati i pollini della pianta a causare la loro ebbrezza e quella di Cravan e
forse anche i misteriosi naufragi di cui parlavano gli indigeni. Ma il saggio
disse che non c’era stato alcun
naufragio e che i marinai scomparsi avevano scelto liberamente di restare
nell’isola, mentre quelli che erano tornati come folli avevano certo abusato
delle sostanze della pianta, senza seguire i
consigli degli isolani e in questo caso, cioè contro la stoltezza degli
uomini, non era sufficiente neppure tutta la saggezza di Bensalem.
Capitolo 6
“So che siete venuti a caccia di
idropoti” – continuò il saggio – “ E sebbene
siamo contrari alla caccia, vi concederemo di recare con voi due di
questi esemplari, per vedere se essi possano vivere nei vostri fiumi e nei
vostri laghi. Crediamo che ogni animale debba restare nel suo ambiente, ma ci rendiamo conto che i tempi cambiano, molte
frontiere sono destinate a cadere e soprattutto che è buona cosa fare doni agli
ospiti. Vogliate accettare anche un esemplare di Ignatia Aesthetica, nella
speranza che vi riconduca alla saggezza. Sappiamo infatti che nel vostro
continente, la saggezza è quasi del tutto scomparsa e la conoscenza che
ritenete di avere del mondo è invece lontana dalla verità. Pensate quello che
vi dicono di pensare, trovate buono quello che qualche potente decide che è
buono e vedete bello ciò che altrove è stato stabilito che sia bello.” Colpiti,
i bretoni vacillarono, come se un velo
opaco fosse caduto ai loro piedi e il
Saggio Parlante, il cui tono era divenuto grave, disse : “ Occorre lasciar
crescere la pianta liberamente, perché essa non tollera eccessi di cura e di
controllo né tanto meno funzioni puramente ornamentali, vano è il tentativo di
descriverla ed è diffusa l’opinione che tale tentativo possa condurre alla
follia. Dosi eccessive delle sue sostanze provocano allucinazioni che non hanno
alcun rapporto con la realtà : esse non sono profezie né premonizioni né tanto
meno suggerimenti di una qualche entità extraterrestre. Sono pure finzioni
delle quali occorre accettare la natura fallace per ricavarne qualche elemento
di verità. Essa non deve diventare né rara né ricercata perché in tal caso se
ne apprezzerebbe più il valore monetario che la bellezza e le eccezionali
qualità. Ciò è inaccettabile e meglio sarebbe che anche le ultime Ignatiae
Aestheticae avvizzissero e non ne rimanesse che il ricordo.”
Gli ardimentosi esploratori, grati
per i doni ricevuti, costernati per l’umore malinconico che aveva preso il
saggio, rimasero in silenzio senza neppure trovare la forza di ringraziare.
Egli, dopo essersi passata una mano sulla fronte, appoggiò il capo alla
spalliera del sedile e si addormentò. Alcuni servitori si avvicinarono ai
nostri gesticolando, come per dire : ogni tanto gli prende così, non c’è da
preoccuparsi. Quindi, con grande gentilezza, li accompagnarono agli
appartamenti loro destinati, dove trascorsero giorni di spensierata e
istruttiva vacanza. Terminato quel periodo di dolcezze, si decisero a tornare
in patria e, salutati dalla popolazione festante e commossa, intrapresero il
viaggio di ritorno. Ben custodita in una teca speciale, recarono in Europa la
pianta meravigliosa e anche i due esemplari di idropoti, che battezzarono Arthur e Mina in memoria del
pugile dadaista e della sua amata. Fecero una sosta a Ceylon per riposare e qui
si sistemarono in una piccola locanda dove dormirono e pasteggiarono
magnificamente. Un mattino, però, svegliandosi tutti alla stessa ora e
osservando il mare dalle loro stanze, ebbero l’impressione di aver sognato.
sabato 10 maggio 2014
IGNATIA AESTHETICA
Originaria dell’isola di Bensalem, l’Ignazia Aesthetica è una pianta
appartenente alla famiglia delle loganiacee ed è stata importata in Europa in
uno dei tanti Medioevi del passato. Fu il pugile esploratore Arthur Cravan ad
intuirne le prodigiose qualità, allorchè si recò nell’sola di Bensalem in sogno,
dopo una abbondante bevuta di Pernod in una bettola di Nanterre. E’ noto che,
in seguito, Arthur Cravan, imbarcatosi sulle coste messicane su un piccolo battello, con l’intenzione di
raggiungere la poetessa Mina Loy in Argentina, è scomparso nell’oceano
Atlantico e molti ritengono che ciò abbia a che fare con le proprietà della
misteriosa pianta. L’Ignazia Aesthetica
può infatti portare alla distruzione chi la coltiva, ma c’è chi sostiene che
essa possa anche guarire da molte gravi malattie e che perciò, come accade con numerosi esseri
viventi, non necessariamente vegetali, bisogna saperla prendere.
La precauzione principale è
quella di lasciarla crescere liberamente, perché la Ignazia Aesthetica non
tollera eccessi di cura e di controllo e tanto meno di essere piegata ad
esigenze puramente ornamentali. Vano e anche pericoloso è il tentativo di
descriverla, peraltro insistentemente compiuto anche oggi, da esegeti inconsapevoli
ed è diffusa l’opinione, peraltro non scientificamente suffragata, che tale
tentativo possa condurre alla follia. Se assunto in dosi eccessive, il succo
ricavato dalla spremitura delle sue foglie o dalla masticazione della sua
corteccia, provoca allucinazioni straordinarie. Tali allucinazioni non hanno
alcun rapporto con la realtà : esse non sono né profezie né premonizioni né
tanto meno suggerimenti di una qualche entità extraterrestre. Sono pure e
semplici finzioni delle quali dobbiamo accettare la natura fallace se vogliamo
ricavarne qualche elemento di verità.
Tanto per la sua delicatezza che
per l’improntitudine di molti improvvisati coltivatori, l’Ignazia Aeastetica è
oggi in via di estinzione e molti esemplari sono avvizziti nel giro di pochi
mesi. Il triste fenomeno ha reso questa pianta rara e ricercata, determinando
anche una straordinaria lievitazione del suo prezzo di mercato, cosicchè oggi
se ne apprezza più il valore monetario che la bellezza e le eccezionali
proprietà. Ciò è inaccettabile e non si
giustifica neppure alla luce delle spietate regole economiche che governano la
nostra società. Meglio sarebbe allora che anche le ultime Ignaziae Aestheticae
avvizzissero e non ne rimanesse che il ricordo, destinato anch’esso ad
affievolirsi nel tempo e infine a scomparire senza lasciare traccia.
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