lunedì 28 dicembre 2015

Lezione sull'ecfrasi o appunti per una performance
Cesare Pietroiusti e Andrea Lanini
16 dicembre 2015  Museo Bilotti  Roma





In occasione della mostra "Delta t  In tempo reale"

domenica 27 dicembre 2015

Non ci vado

 Il vecchio Ed si stropicciò gli occhi cisposi, una mattina di gennaio, nella luce di un sole scialbo che non arrivava alle sue ossa malandate, e guardò il padrone con infinita stanchezza. Lo guardò stancamente e gli disse : 
“Sai cosa ti dico, amico? Sai cosa ti dico? Beh, apri bene le orecchie, amico : io non ci vado in quella fottuta casa del cazzo, io non ci vado in quella maledetta fottuta casa del cazzo. Quella è una vecchia bicocca che cade a pezzi amico, una dannata vecchia bicocca, al di là del fiume. Un maledetto puzzolente fiume del cazzo, con i topi, la schiuma dei detersivi e tutto il resto.  Ehi ehi,  tu dici a me che ci devo andare, tu dici che è sempre meglio che marcire così sul marciapiede. Ok amico, sai cosa ti dico? Che preferisco mille volte questo lurido marciapiede del cazzo. Lo preferisco a quella fottuta bicocca che cade a pezzi. Voglio dirti una cosa amico. Voglio dirti quello che diceva il mio vecchio. Era un gran figlio di puttana il mio vecchio, ma quando parlava era meglio starlo a sentire e sai perché amico? Tu sai perché? Perché aveva vissuto, il mio vecchio,  ecco perché. Aveva vissuto una fottuta vita del cazzo. “Fossi in te non lo farei” diceva il mio vecchio e puoi star certo che aveva ragione lui, fottuto vecchio figlio di puttana! Perciò  non lo farò amico,  neppure per un milione di dollari né per un conto in banca, una bella automobile, un vestito nuovo e tutto il resto, amico. No, per nulla al mondo  ci vado al di là del fiume, quel dannato puzzolente fiume alla fine della città. Non ci vado in quella maledetta fottuta casa del cazzo."
A dire la verità, l’abitazione del vecchio Ed, se di abitazione si poteva parlare, non era esattamente il marciapiede, ma certo il comfort che la caratterizzava era più o meno quello dell’asfalto. Il suo focolare domestico era infatti uno sgabuzzino puzzolente con affaccio sulla strada, pieno di vecchi oggetti dismessi e di ragnatele, che stava a metà fra il deposito di un robivecchi compulsivo e la discarica comunale.
Glielo aveva lasciato in consegna il padrone di un albergo piuttosto sordido, nel quale entrava e usciva troppa gente per essere una normale locanda per turisti.  La porta di ingresso di quella tana, che tra l’altro era a vetri, si trovava proprio sotto l’insegna dell’albergo, che nella notte diffondeva una lampeggiante luce azzurra fino al giaciglio  del povero Ed. Il padrone lo teneva lì praticamente in cambio di niente, a parte qualche sporadica pulizia dei cessi, che Ed praticava ogni tanto per sdebitarsi ma senza grandi risultati perché la miseria di quella specie di catapecchia era troppo radicata nei muri e nelle suppellettili perché si potesse anche soltanto immaginare di attenuarla. 
“Cristo santo, Ed!” – gli diceva ogni giorno il padrone – “ Vatti a fare un giro in città!”
“Cristo santo! “ – insisteva , affacciandosi sulla soglia della sua favolosa proprietà – “Datti una ripulita e fatti un giro, Ed! Se resti lì come un cane bastonato, finirai per diventare anche tu un vecchio mobile scortecciato senza le gambe”.
“Sprechi il fiato, Ed!” – rispondeva digrignando i denti Ed al padrone che, guarda caso, si chiamava Ed anche lui – “ Mi darò una mossa quando vorrò darmi una fottuta mossa del cazzo e a giudicare dalle condizioni delle mie ossa, amico, questo non sarà tanto presto”.
“Ok Ed” – concludeva il padrone tornando al suo bancone – “Fa un po’ come vuoi , vecchio scemo”
Anche se lo chiamava spesso “vecchio scemo”, Ed voleva bene a Ed, perché gli ricordava suo padre. Il padre di Ed, voglio dire del padrone, non si chiamava Ed, se dio vuole, ma Charly. E a dire la verità, Dio non aveva voluto che Charly facesse una bella fine. Era stato lui, il vecchio Charly, a tirare su tutta quella baracca e a darle il nome che aveva ancora adesso, “La Nave”, perché diceva che vivere là dentro, in quell’albergo miserevole, con le sue luride stanze e i cessi mezzi otturati, le tappezzerie consumate e le lampade ingiallite piene di moscerini morti, era come stare tutti nella stessa barca.
Era un inguaribile ottimista il vecchio Charly. E anche se gli avventori della sua topaia cambiavano di continuo ed erano in fin dei conti degli estranei per lui, lui li accoglieva come fossero tutti dei vecchi amici, se non addirittura dei fratelli di latte. Era così che prendeva le fregature il vecchio Charly, dando fiducia a quei maledetti bastardi. Già, perché un bel giorno, anzi un brutto giorno, anzi, diciamo pure un fottuto giorno di merda, erano arrivati alla "Nave" dei fottuti bastardi veri, gente capace di degradare con la loro presenza anche la più degradata gattabuia della città. Forse erano stati attirati lì dalla nota dabbenaggine del vecchio Charly o forse era stato il puro e semplice  caso a portarli in quella vecchia topaia, dove avrebbero avuto modo di dimostrare tutta la loro maledetta indole di bastardi. E non c’era proprio verso di metterlo in guardia, il vecchio Charly. Quanto più il figlio Ed e gli amici lo scongiuravano di allontanare quella banda di ladri e di spacciatori, tanto più lui rispondeva che quelli erano solo dei poveri ragazzi perseguitati dalla sfortuna, che in fondo c’era del buono in loro e che quella fottuta società di merda non li capiva. Era chiaro anche a un bambino che il vecchio Charly mentiva a se stesso. E lo faceva per tenere in vita l’illusione balorda del suo piccolo paradiso, quel fottuto sordido alberghetto che insisteva a considerare un giardino di rose e fiori. 
Quando uno di quei criminali lo pestò a sangue perché pretendeva da lui una somma di denaro che lui non aveva, allora Charly perse le sue illusioni.
Non furono tanto le botte a fargli male. O almeno, non solo quelle. Fu il suo maledetto sbagliato rapporto con la realtà a fregarlo, quando i pezzi del suo povero mondo campato in aria gli caddero addosso, mentre si contorceva rantolando dietro il bancone.
“Datti una ripulita e fatti un bel giro in città, Ed!” – diceva Ed a quel vecchio che gli ricordava suo padre. O meglio : gli ricordava suo padre quando era alla fine, quando aveva perso le sue illusioni, dopo il maledetto fottuto pestaggio da parte di quel bastardo.
Perché il vecchio Charly non era stato più lui, dopo quel dannato giorno. Certo, il figlio Ed aveva finalmente cacciato quei delinquenti e ripulita per quanto possibile la vecchia topaia, con i letti nuovi, i cessi riparati e tutto il resto, ma quello che non era riuscito a rimettere in sesto era il vecchio Charly.  Il vecchio Charly straparlava. Diceva cose che non stavano né in cielo né in terra. Voleva che la moglie, morta da dieci anni, gli portasse il caffè e parlava di continuo di quando era stato in guerra ed era stato ferito alla mano destra.
“La mano destra!” – diceva – “ Devo farmi togliere la scheggia dalla mano destra, cazzo! Cosa diavolo posso fare senza la mia mano destra?”
“Ok Charly, ora ci penso io Charly” – cercava di tranquillizzarlo il figlio Ed, che aveva ereditato dal padre quella fottuta abitudine a minimizzare i segnali di pericolo.
“Tranquillo Charly, è una cosa da nulla : te la tolgo io quella dannata scheggia. Lasciami prima portare gli asciugamani al 15, poi te la tolgo”.
Ma non fece in tempo, Ed. Non riguardo alla scheggia, che non esisteva e neppure alla mano destra, che era a posto. Ed non fece in tempo a trattenere il vecchio Charly. Quando Ed tornò in camera dal padre, dopo aver lasciato gli asciugamani alla camera 15 e aver dato una sistemata alla meglio ai letti sfatti, vide le vecchie pantofole ammaccate sotto il davanzale della finestra. E la finestra era aperta, nonostante che il termometro, quel giorno, segnasse solo due gradi. Era il modo più facile. Quando guardò fuori, un fiotto di calore gli salì alla testa. Il vecchio Charly era laggiù, rannicchiato su quel fottuto marciapiede grigio e non c’era traccia di sangue accanto a lui. Sembrava che dormisse, anche per via della vestaglia che indossava e dei piedi nudi, bianchi come la neve che di lì a poco avrebbe cominciato a cadere. Quello era il marciapiede di una strada stretta che andava in discesa sul retro dell’albergo e che sul lato opposto era delimitata da una altissima muraglia di mattoni. Era un oscuro fottuto strapiombo, una specie di cupo purgatorio della città, che sembrava la scenografia più tristemente adatta ad una morte come quella. La triste morte del vecchio Charly, uscito improvvisamente di senno.
“ Dammi un cicchetto, Ed!” – disse Ed avvicinandosi al bancone – “Uno solo, Ed, oggi fa freddo e io sento un maledetto gelo alle ossa”.
Il padrone lo guardò. Stava pensando a suo padre, il povero Charly uscito di senno, che dormiva il suo sonno eterno sul marciapiede della strada stretta sul retro. Forse era per il freddo che ci pensava, forse per la dannata faccia di  vecchio pazzo che aveva davanti. Forse semplicemente perché non riusciva a togliersela dalla testa, quella scena, insieme a quei fottuti asciugamani della camera 15. Ma in quel momento la faccia del vecchio non gli ricordò per niente suo padre. Quello sguardo di traverso, la smorfia all’angolo della bocca e la barba bianca mal rasata non avevano nulla a che vedere con il povero Charly. Proprio nulla a che vedere. Negli occhi del vecchio, nonostante la sua aria da cane bastonato, c’era qualcosa di sinistro. Un maledetto fottuto sguardo sinistro.
Erano passati più di vent’anni. Venti dannati anni di vita d’albergo in quella topaia. Ad accogliere gente di ogni genere, gente di tutte le razze, che aveva lasciato le sue sordide tracce in quelle stanze squallide, che ne erano rimaste inevitabilmente infettate.
“Solo un cicchetto, Ed” – insisteva il vecchio.
Tutto sommato era possibile, pensò il padrone. Quel bastardo era finito in galera, certo, ma dopo un paio d’anni l’avevano messo fuori. Magari era davvero tornato lì, sul luogo del delitto, a cercare un rifugio, quando non era più in grado di bastare a se stesso e neppure di pestare qualcuno a quel modo, dannato bastardo di merda. Sapeva che lui l’avrebbe accolto, che avrebbe accolto chiunque, perché alla fine, questa era la verità, in quell’ottuso ottimismo con cui anche lui accoglieva i clienti nella sua topaia, lui era come suo padre, come il povero vecchio Charly fuori di senno.
O meglio : “quasi” come suo padre.
E mentre si concentrava  su quel “quasi”, Ed vide negli occhi del vecchio Ed quello sguardo sinistro, lo sguardo di quello che non a torto considerava l’assassino di suo padre ed ebbe come un sussulto. Una specie di ombra nera gli attraversò il cervello, come quella di una nuvola portata dal vento davanti al sole. Quel maledetto avanzo di galera gli stava davanti e aveva la sfrontatezza di chiedergli un cicchetto, un maledetto cicchetto di merda. Senza pensare a quello che faceva, senza neppure pensare  a quel “quasi” che davvero lo rendeva almeno un po’ diverso da suo padre, Ed il padrone afferrò Ed lo homeless per il bavero e lo attirò a sé, facendolo sbattere contro il bancone.
“Ehi Ed!” – mugolò il vecchio – “Cosa ti salta in testa, ti ho chiesto solo un cicchetto! Un dannato, misero cicchetto, Ed! Molla la presa, Ed, mi fai cadere!”
A quelle parole del vecchio, il padrone tornò in sé. La sua mano destra ancora tremante lasciò il bavero sfilacciato del giaccone di Ed e gli cadde abbandonata sul fianco.
“Scusa, Ed” – mormorò tenendo gli occhi bassi, come pensando a qualcosa di molto lontano e di perduto nel tempo.
“Un cicchetto Ed” – ripetè l’altro lentamente, quasi per tentare un ritorno alla realtà.
“Certo Ed, scusa Ed, non devi farci caso. Mi sono venute delle strane idee, sai, quel genere di pensieri che ti annebbiano il cervello, quelli che alla fine  ti fanno venire il mal di testa. Maledette fottute idee che sarebbe meglio non avere…”
Il vecchio, ancora dondolante, lo guardava un po’ smarrito.
“Voglio dire, Ed, voglio dire…” – il padrone versò il bourbon in un bicchiere  e lo riempì fino all’orlo.
“Voglio dire, che se siamo proprio noi, quando pensiamo, a farci venire in mente le idee, perché diavolo non evitiamo quelle che ci danno il mal di testa?”
Il vecchio fece una smorfia che rassomigliava molto vagamente ad un sorriso e mandò giù un sorso di bourbon.
“ Beh, Cristo santo, ci deve essere qualcosa, Ed…” – disse –“ Ci deve essere qualcosa nella tua testa.”
“Già Ed” – concluse cupo il padrone – “Ci deve essere qualcosa.”
Il vecchio trangugiò il resto del bourbon e il padrone gli riempì di nuovo il bicchiere, guardandolo finalmente negli occhi, come se di nuovo vedesse in lui il vecchio Charly. Il buon vecchio Charly uscito di senno, come fosse ancora vivo. Pensò anche a quel dannato sgabuzzino pieno di robaccia illuminata dalla luce azzurra e decise che non era più il caso che il vecchio Ed ci dormisse come un cane spelacchiato nella sua sporca cuccia.
Aveva una casetta al di là del fiume, una piccola casa vuota da rimettere in sesto, con qualche mobile, la cucina, il bagno funzionante, il camino e tutto il resto. Una casa che in confronto a quel dannato sgabuzzino era una reggia. Lui poteva farcelo sistemare, in quella casa al di là del fiume e il vecchio Ed ci poteva rimanere fin quando avesse voluto.
Ma il vecchio Ed guardò Ed fisso negli occhi e gli disse: “Sai cosa ti dico, amico? Sai cosa ti dico? Beh, apri bene le orecchie, amico : io non ci vado in quella fottuta casa del cazzo, io non ci vado in quella maledetta casa del cazzo. Quella è una vecchia bicocca che cade a pezzi, amico…..”
E così via.










Non ci vado


sabato 24 ottobre 2015

Torino Sabato 17 Ottobre 2015

Torino 17 Ottobre  al Congresso dei Disegnatori, a cura di "Nero".

Performance a distanza con Cesare Pietroiusti

Le istruzioni della performance “Lotto Volante” sono le seguenti :
Operazione preliminare :
Indossare una maschera del Giovane che guarda Lorenzo Lotto di Giulio Paolini, tenere pronta una tela quadrata e una matita molto morbida o un pennarello per disegnare sulla parete.

Operazione performativa :
1)     Appoggiare la tela quadrata su una delle quattro pareti in un punto libero a scelta, con il  retro della tela verso il disegnatore, contornare la tela col pennarello lasciando la traccia di un quadrato, scrivere al centro del quadrato la data di esecuzione del dipinto di Lorenzo Lotto, il 1506.

2)     Pensare intensamente al pittore Lorenzo Lotto.


3)     Appoggiare la tela quadrata sulla seconda delle quattro pareti, contigua alla prima, sulla sua destra, sempre con il retro della tela verso il disegnatore, contornare la tela col pennarello lasciando la traccia di un quadrato, scrivere sui vertici nel quadrato i numeri 1,2,3,4, ciascuno in corrispondenza di un vertice.

4)     Pensare intensamente al pittore Malevich.


5)     Appoggiare la tela quadrata sulla terza parete contigua a destra, sempre col retro della tela verso il disegnatore, contornare col pennarello lasciando la traccia di un quadrato, tracciare un triangolo all’interno del quadrato, seguendo le seguenti istruzioni : dal punto di mezzo del lato orizzontale superiore del quadrato , tracciare due segmenti che da quel punto vadano a concludersi nei due spigoli del lato orizzontale inferiore, scrivere sotto questa figura così ottenuta l’equivalenza : 1 + 2 + 3 + 4 = 10

6)     Pensare intensamente alla trasmigrazione delle anime.


7)     Appoggiare la tela quadrata sulla quarta ed ultima parete, sempre col retro della tela verso il disegnatore, contornare la tela col pennarello lasciando la traccia di un quadrato, tracciare un cerchio circoscritto al quadrato che passi per i vertici del quadrato stesso .

8)     Pensare intensamente alle Enneadi di Plotino

Conclusione :
a)     Pensiamo insieme che il passaggio dal quadrato al cerchio evoca l’ascesi neoplatonica dalla terra al cielo.
b)     Pensiamo insieme che in arte i numeri sono fondamentali
c)      Pensiamo insieme che nel nostro caso lo sono anche i numeri del Lotto. 





Naked Lights al Teatro Tor di Nona

Un intervento "Site Specific" con palo e cartone   Luglio 2015





martedì 4 agosto 2015

giovedì 2 luglio 2015


Cesare Pietroiusti e Andrea Lanini : lezione alcolica sull' "Ecfrasi"
Torino 3 Giugno 2015 presso Palazzo Barolo e La Cavallerizza
In occasione di " Stare" a cura di Alessia Pamphili