Accade a volte di arrivare in un luogo
sconosciuto e di avere la strana sensazione di esserci già stati. E’ un po’come
nei sogni, quando case, strade, città che non abbiamo mai visto ci appaiono
d’un tratto familiari senza che riusciamo a capirne la ragione. Alcuni raccontano anche di aver sognato
strade e piazze sulle cui targhe era riportato il loro nome, con la piacevole
constatazione di essere diventati famosi, ma anche quella meno gratificante di
essere morti. A me è capitato qualcosa del genere, ma non in sogno e proprio in
questa città. Anche se il nome di una piazza, se Dio vuole, non era il mio, ma
mi era comunque familiare. E non è stato affatto difficile spiegarmi la
presenza di quel nome per averlo sentito e ripetuto, non soltanto durante
l’infanzia, alla quale sempre più spesso ritorno con la memoria, ma anche per
almeno vent’anni della mia vita. Più che di una spiegazione, si è trattato di
un’illuminazione, di un ritorno improvviso del passato che mi faceva sentire a
casa e faceva rivivere situazioni e persone cui non pensavo più, ma che
evidentemente non avevo dimenticato. A dire la verità, si comincia a pensare
agli spiriti quando si avvicina il momento di entrare in quella indesiderata
categoria. Un mio vecchio amico sostiene con una certa convinzione che gli
spiriti sono in grado di influenzare il funzionamento di macchine e motori ad
alimentazione elettrica, come ascensori e scaldabagni e aggiunge che in
particolare le madri, in virtù della loro potenza generatrice, si divertano a bloccare gli scaldabagni dei figli e gli ascensori nei
quali i figli salgono e scendono. Va da sé che possono fare questo genere di
scherzi solo dopo morte. Devo ammettere che nonostante il mio scetticismo in
proposito, non mancano episodi singolari e coincidenze che sembrano dar ragione
al mio vecchio amico, soprattutto per quanto riguarda gli ascensori e le madri.
Ma tornando al filo del discorso, devo ora sottolineare il fatto che mia madre,
mio padre ed io, da quando avevo soltanto sei anni, abbiamo abitato in una casa
d’affitto, i cui proprietari avevano proprio quel nome e il fatto di averlo
ritrovato qui, in una piazza di Montefiascone, mi ha ricordato che ne conoscevo
già da allora l’origine. La città di Montefiascone d’altra parte non mi era
sconosciuta per il fatto che almeno due o tre volte l’anno venivo scarrozzato
come un bagaglio appresso da Roma a Firenze e da Firenze a Roma sulla Fiat 1500
verde bottiglia di mio padre lungo una via Cassia che era una serie di salite,
discese e curve senza fine. La sosta a
Montefiascone era pertanto obbligatoria almeno per tirare il fiato e non meno
obbligatorio era fermarsi ogni volta a Radicofani dove puntualmente alla macchina fumava il
motore. Qualche volta sui tornanti ci sorprendeva il temporale e poiché la
pioggia si trasformava in una tenda di vetro, bisognava fermarsi alla vecchia
stazione di posta, dove comunque penetrava un vento pieno d’acqua. Allora tutti
scendevano dalle automobili grondanti e si lamentavano imprecando contro il
maltempo, ma almeno scoprivano di avere qualcosa in comune. A Roma la famiglia
Frigo abitava all’ultimo piano del suo palazzo insieme ad alcuni parenti
molto giovani, dei quali due ragazzi
intorno ai dodici anni e due sorelle più grandi, molto legate tra loro e anche
molto riservate tanto da sembrare un po’ malinconiche. Frequentavano la piccola scuola di suore dove
io andavo alle elementari, ma erano già al liceo ed io le vedevo salire, con la
loro semplice divisa, una gonna e un golfino blu, lungo le scale che portavano
ai piani alti dell’istituto, dove alla fine scomparivano. Era una visione
angelica che oggi potrebbe ricordarmi un dipinto di Blake o di Previati e che
allora forse prefiguravo, per le strane mescolanze del tempo, che ancora non
conosciamo. Sta di fatto che a un certo
punto la visione luminosa delle ragazze che salivano, svaniva ed io ero
sospinto nelle classi del primo piano, insieme ad una immonda marmaglia di
mocciosi. Nonostante le mie illuminazioni e visioni mistiche, o forse proprio
per quelle, avevo solo un’idea molto vaga di quanto fossero importanti i
“piani” nella vita. Nella mia classe c’era un compagno enorme, molto più grande
della sua età, che si chiamava Sclavi. Sclavi aveva la pessima abitudine, per
farsi bello con le ragazzine, di sollevare da terra i compagni di dimensioni
normali e quando prendeva me tirandomi su per le ascelle, la cosa mi seccava
moltissimo. Di solito o questi bambini
precoci in seguito si fermano nella crescita e in questo caso, ma solo in
questo caso, mi piacerebbe rincontrarlo, per dargli delle pacche sulla testa, anche
se alla mia età certe cose non si fanno perché risultano incomprensibili. Ma questo
non c’entra col filo del discorso, che ho smarrito di nuovo, e devo invece
ricordare che la famiglia Frigo, prima della ben nota nazionalizzazione del
1962, era proprietaria di alcune società elettriche e, non a caso, erano
presenti in quello stesso edificio la società elettrica sarda e la società
elettrica di Sicilia, rispettivamente al primo e secondo piano, con gli impiegati che si vedevano lavorare sui
loro tavoli dalle finestre sul cortile e dal terrazzo a ballatoio che girava
tutto intorno, pieno di iris e di gerani.
Da lì, guardando verso l’alto,
intravedevo gli ampi, meravigliosi terrazzi dell’ultimo piano, veri giardini
pensili a un passo dal cielo, da cui si vedeva la città intera e più da vicino
il Quirinale, con la bandiera che sventolava come su una nave, e quell’assurdo
visionario manufatto interrotto, quasi incrostato di mattoni che è il tamburo
della cupola mai costruita di Sant’Andrea delle Fratte con accanto il folle
gioco di equilibrio del campanile. Ma questo, per il momento, non c’entra :
l’importante è invece che la presenza di quelle società elettriche, sebbene
quelli fossero semplicemente degli uffici e non contenessero al loro interno nessuna
turbina e nessun cavo ad alta tensione, avesse comunque a che fare, su un piano
puramente concettuale, con le scariche elettriche e mentali e le alchimie del
pensiero di cui parlavo prima. A volte,
uno dei ragazzi, il più piccolo, che se non sbaglio si chiamava Piero, mi
lanciava un filo dal suo terrazzo, giù nel cortile fino al mio e dopo avere
applicato alle estremità due grossi barattoli di latte in polvere vuoti,
praticamente parlavamo al telefono. Non avevamo molte cose da dirci ma il gioco
era divertente e tutto sommato interclassista. Ciò che oggi mi sembra
interessante è il latte in polvere, un
prodotto che non esiste quasi più, almeno credo, e che doveva più che altro
sopperire alla indigenza del periodo bellico, finito da meno di dieci anni. A
dire la verità, non so bene perché mi trovassi in quel palazzo con i miei
genitori. Loro ci si erano trasferiti nel 1952, quando avevo sei anni perché
lì avevano un negozio di scarpe e la
famiglia Frigo glielo aveva concesso in affitto, prima della guerra, credo per
l’intercessione di mio nonno, che ritengo fosse una delle pochissime persone
dotate di senso pratico di tutto il mio albero genealogico, ammesso che ne
abbia uno. Per via della antica amicizia con il nonno, i Frigo ci avevano quindi
anche affittato un appartamento in quel palazzo bellissimo, cosa che
probabilmente non meritavamo, ma di cui peraltro abbiamo immeritatamente usufruito fino
agli anni ottanta, quando il centro storico, compreso quell’edificio illustre è
diventato terra di conquista di uffici e sartorie alla moda e le famiglie
normali e anonime sono state giustamente relegate in più anonime parti della
città, per loro molto più confacenti. Questo tra l’altro mi fa pensare che vi
sia un ordine nell’universo ed è un pensiero che va ad aggiungersi a quelli
sugli spiriti e le influenze paranormali, che, come abbiamo notato, tendono ad aumentare
con l’età. Quanto alla questione delle scarpe, può sembrare strano che una
famiglia dedichi tanta attenzione e fatica a qualcosa che ha a che fare
soltanto con i piedi, ma a parte il fatto che la richiesta di scarpe da parte
dei piedi è una cosa sicura e può diventare fonte di sostentamento per degli
scarpari, è incredibile quante invenzioni, fantasie e variazioni siano
possibili nel progettare e confezionare un paio di scarpe, per lo meno in
quegli anni, e devo dire che fin da piccolo sono stato affascinato da questo
mondo pedestre, anche soltanto leggendo i titoli che venivano dati ai diversi modelli e che erano ordinatamente
riportati a penna sulle scatole che li contenevano. Il “Gioiello” ad esempio
aveva un tacco basso di maiolica dorata e il “Messaggio segreto” una specie di
plico in pelle arrotolato sul collo, mentre il modello “Pollaiolo”si ispirava
ad un affresco del famoso pittore del XV secolo. Si trattava insomma di un
microcosmo pressoché infinito di personaggi che, sebbene fossero associati a
delle scarpe, avevano qualcosa di favoloso. Anche la posizione delle scarpe
all’interno delle scatole mi piaceva e provo una sorta di sollievo rassicurante
notando che essa non è cambiata affatto in settanta anni, neppure per le scarpe
più moderne che d’altra parte rassomigliano molto spesso a quelle del passato. Le scarpe, infatti, che ovviamente sono due,
sono disposte in modo da opporsi dalla parte del collo, con le suole verso
l’esterno, ma una rovesciata rispetto all’altra, in modo che la punta della
prima corrisponda al retro della seconda e
che sia utilizzato al meglio lo spazio del contenitore. La cosa più
bella e delicata, poi, cioè una cosa quasi commovente, è un foglio leggero di
carta velina che avvolge del tutto una delle scarpe e lascia un po’ più
scoperta l’altra, che in questo modo può
essere rapidamente estratta per la prova. E quest’ultima è sempre la scarpa destra in quanto proprio la destra
deve essere provata per prima poiché il piede destro è generalmente più grande
del sinistro ed è dunque l’ostacolo da
superare al fine di garantire l’utilizzabilità delle scarpe in questione. Ma questo è un altro discorso e, per
riprendere ancora una volta il filo logico che mi è nuovamente sfuggito,
posso ricordare che quel negozio di
calzature si trovava al piano terreno di palazzo Tomati, al livello della
strada, era parte cioè di un edificio che aveva ospitato gli studi di
grandissimi artisti dei secoli passati. Fra il settecento e l’ottocento
infatti, come è testimoniato dalla grande targa marmorea che tuttora si trova
sulla facciata, importanti e famosi personaggi hanno vissuto in quel palazzo e
chissà quali idee straordinarie hanno avuto e a quali geniali invenzioni hanno
dato vita, riempiendo così stanze ed appartamenti di quelle onde magnetiche e
mentali e di quelle presenze elettriche che ho avuto modo di frequentare nel
corso dell’infanzia e dell’adolescenza.
Non so esattamente chi avesse
abitato nella casa presa in affitto dai miei genitori che era al secondo piano,
come probabilmente ho già detto,avendo appurato soltanto che l’archeologo e
architetto Luigi Canina occupava l’ultimo piano, mentre lo scultore Thorwaldsen
il primo, senza ulteriori informazioni sugli intestatari degli altri piani, compreso
Piranesi. Non so in quale modo e quando la famiglia Frigo fosse entrata in
possesso di quell’immobile di grande pregio, ma so d’altra parte che il palazzo
fu edificato nel XVII secolo per un monsignor Tomati, originario del Piemonte e
che nel 1781 era stato acquistato dall’architetto Camillo Buti. L’architetto
Buti era noto per aver scoperto e restaurato l’antica villa Negroni, nella zona
dell’Esquilino. Questi era poi deceduto in precarie condizioni economiche e la
sua vedova era stata costretta a trasformare l’antico palazzo in una pensione
che sarebbe stata particolarmente
apprezzata da artisti e intellettuali europei impegnati nel Grand Tour cioè
quelli che lo storico Jorgen Hartmann
definisce “uccelli migratori”. Questa
pensione, cioè la casa Buti, fu poi gestita
dalle tre figlie dell’architetto Camillo, le quali, soprannominate dai clienti Le Tre
Grazie, sposarono tre ricchi ospiti
della pensione risolvendo così i loro problemi. Devo ammettere che la presenza
di queste tre sorelle mi fa venire in mente le più recenti sorelle di casa
Frigo, conosciute da me, quali ultime
proprietarie di palazzo Tomati e il loro aspetto grazioso non meno del forte
legame affettivo me le fa paragonare a delle Grazie, anche per essere
inseparabili, sebbene fossero soltanto due ed avessero smarrito la terza nel
corso dei secoli. Si tratta, credo, di un parallelismo misterioso che rientra
certamente nel novero dei segni subliminali di cui attualmente mi occupo, a
conferma dei quali c’è anche il dato di fatto inoppugnabile che uno dei
pensionanti di casa Buti, lo scultore Thorwaldsen, abbia egregiamente lavorato al
tema mitologico delle Tre Grazie, realizzando un’opera di grande bellezza,
capace di gareggiare con quella omonima del Canova. Non so esattamente se, ed eventualmente in
che modo, io abbia potuto assorbire le scariche mentali di Thorwaldsen, se mai
ne ha lasciate in giro. Si potrebbe dubitarne, considerato il fatto che al pur
grande scultore danese è stata imputata una certa freddezza, ma io non
asseconderei troppo questo dubbio, ricordando
l’inquietudine e addirittura il timore che mi incuteva il suo busto
marmoreo, collocato all’inizio delle scale sopra una lapide celebrativa, tra l’altro
proprio davanti all’ascensore. Stando alle tesi del mio vecchio amico non era
da escludere l’influenza sotterranea della madre di Thorwaldsen, visto che
l’ascensore del palazzo si fermava piuttosto spesso. Devo ammettere che
quell’ascensore non era nuovissimo e per questo in armonioso accordo con l’età
veneranda dell’edificio, ma non era da escludere il fatto che ormai, essendo
morto anche il figlio, la madre di Thorwaldsen finisse per prendersela con
l’ascensore di qualcun altro. Comunque al di là dei suoi non comprovati poteri paranormali, il busto di Bertel
Thorwaldsen era un punto di riferimento importante per tutti i pellegrini
danesi in visita a Roma. Tra l’altro, nella stessa via Felice e a pochi metri
di distanza, abitava l’altro grande danese, Hans Christian Andersen, che spesso
andava a trovare l’amico Berthel nel suo studio e qualche volta lo invitava al
caffè Greco a bere qualcosa. Infatuati da tante storiche testimonianze, i
turisti danesi saltavano allegramente da una lapide all’altra. Era quel genere
di turisti che mio padre bonariamente malediva perché generalmente non
compravano le scarpe, tanto meno quelle bizzarre e costose che pretendeva di
vendere lui. A onor del vero però, devo
ammettere che per un lungo periodo il negozio riuscì a vendere proprio quel
genere di scarpe consentendo alla mia famiglia di sopravvivere, avendo come
clienti personaggi strampalati e originali di quella che venne definita “Dolce
Vita”, cioè attori, pittori, musicisti, truffatori, nani e ballerine ma anche
signore normali animate dal legittimo desiderio di calzare delle scarpe comode.
La procedura che conduceva alla produzione di un paio di scarpe su misura aveva
qualcosa di artistico e per certi versi addirittura di poetico. Oserei
affermare che avesse poco da invidiare al lavoro metodico di Piranesi e di
Thorwaldsen che, certamente contrariati, ma forse anche divertiti, si vedevano
sostituiti da degli scarpari. Tutto cominciava con la misurazione del piede e
l’impiego di un curioso panchetto cubico sul quale mio padre, provvisto di
foglio e di matita, doveva sedersi a cavalcioni per prendere in esame il piede
della cliente. Questo andava a poggiarsi su un apposito cassetto,
opportunamente inclinato ed estraibile dal panchetto medesimo e naturalmente
mio padre, con la necessaria delicatezza, inseriva il foglio sotto il piede e,
contornandolo a matita, ne ricavava l’impronta. Il prezioso foglio, poi, che
poteva essere rosa o azzurro, veniva corredato, sotto gli occhi esperti del
fantasma di Piranesi, di tutte le notizie utili e, se mia madre notava nella
sagoma di quel piede degli orribili bitorzoli, era probabilmente perché il
marito si era troppo avvicinato al ginocchio della cliente, il che a quei tempi
era roba da film a luci rosse.
Ma ecco che ho nuovamente smarrito
il filo del discorso, ingarbugliandomi con la memoria in una specie di
labirinto o invece lo sto inconsapevolmente seguendo, quel filo, visto che il
nesso iniziale, palazzo Tomati, palazzo Frigo e tutto il resto non annunciava
affatto il percorso da seguire. Ed anzi è possibile che privilegiando una certa
ispirazione piuttosto che la logica e associando pensieri apparentemente
lontani tra loro, quindi prendendo per buona la famosa indicazione di
Lautrémont, si finisca per muovere più in profondità le acque misteriose dei
simboli e si favorisca la loro alchimia andando a incidere in quello strato
oscuro della immaginazione che era tanto caro al cavalier Piranesi. Che poi
l’influenza del suo spirito vagante e quella dei suoi amici possa aiutare il
processo alchemico non posso giurarlo, ma posso almeno sperare che il movimento
delle acque profonde della mente partorisca qualche buona idea. Aggiungo solo
che furono assai meno proficui gli anni successivi al 1960 quando l’esercito
agguerrito e anonimo delle scarpe fatte a macchina avrebbe tagliato fuori dal
mercato l’attività di famiglia nonostante avesse sede, alquanto
inconsapevolmente, nello stesso luogo in
cui aveva vissuto e appassionatamente lavorato il grande incisore. Devo infatti
ammettere che tra tanti personaggi importanti che avevano transitato nei secoli
in palazzo Tomati, lasciando certamente i loro spiritelli a galleggiare
nell’aria vicino ai soffitti di quelle stanze e di quei corridoi, Giovambattista
Piranesi è certamente il più interessante. E lo dico al di là della opinione
che si può avere del suo altissimo valore di artista, pensando piuttosto alla
forza magnetica delle sue visioni, alla insondabile intensità elettrica delle
sue invenzioni, e insomma a tutto ciò che si collega alla sua sapienza
alchemica, strettamente connessa alla tecnica della incisione e alle sue
relazioni con la massoneria di cui molto si è ragionato anche a proposito delle
sue opere e dei suoi committenti, evocando inevitabilmente segreti e racconti
di carattere esoterico. Si può anche soltanto immaginare che un tipo simile non
abbia lasciato tracce subliminali nei luoghi da lui frequentati, ricordi e
memorie stratificate in grado di condizionare e influenzare i posteri, voci
sospese tra le pareti che ancora vagamente si percepiscono, sia pure nel
leggero ticchettio delle tastiere dei computer negli uffici? Io credo di no. D’altra
parte nel 1961 Marguerite Yourcenar avrebbe scritto pagine illuminanti su di
lui riguardo alle famose incisioni delle Carceri, immaginando e descrivendo il carattere solitario
saturnino dell’autore, le sue ossessioni di ricercatore melanconico e lo strano
fascino di quelle prigioni impressionanti nelle quali la precisione prospettica
del geometra esperto perveniva a soluzioni paradossalmente irrealistiche. La scrittrice
che sette anni più tardi sarebbe divenuta famosa con il libro L’Opera al Nero, guardava a Piranesi e
alle sue incisioni, come al lento lavoro
di chi affronta e si sporca con la Nigredo, operando a lungo e con impegno
incessante fino a generare il chiarore dell’immagine. Si tratta qui di una
concezione dell’arte come faticosa elaborazione della materia e del pensiero
non troppo lontana dalla più ironica e dissacrante visione di Marcel Duchamp
che la sintetizza nella ben nota
Macinatrice di Cioccolata. E in effetti le Carceri, soprattutto nella seconda edizione,
dove le ombre si appesantiscono e la trama architettonica si complica, si
presentano davvero come un oscuro labirinto dove le figure tormentose dei
torturati e i busti marmorei degli eroi sembrano equivalersi. Come nelle tavole
del Campo Marzio e in quelle della antica via Appia sembra che il tentativo di
Piranesi di dare ordine alla storia finisca in un insensato accumulo di reperti
senza alcuna logica plausibile e il dominio di Crono, del tutto incomprensibile
agli uomini, scarichi su di loro l’enorme peso degli eventi, ingombranti nel
loro brutale e irragionevole accadere. Gli storici hanno appurato che
l’incisore ha cominciato a concepire le sue Carceri dopo una visita a Ercolano
in compagnia dell’amico scultore Corradini. Nato a Mogliano Veneto, il giovane
Piranesi, affascinato da Roma e dal Sud, risente tuttavia della grande
tradizione pittorica veneziana, in particolare di Giovambattista Tiepolo e
questo è del tutto evidente proprio nella prima edizione delle Carceri. Quelle
tavole infatti sono veri e propri Capricci, immagini di fantasia, inondate di
luce e quasi sul punto di svanire, nelle quali affiora solo debolmente la
“terribilità”della seconda edizione. Anche in quella, d’altra parte, il gusto
chiaroscurale e la complessità della prospettiva dal basso riprendono quella
tradizione, evocando Paolo Veronese e per altri versi le scenografie dei
Bibiena. Perfino le piccole figure che popolano gli antri e i camminamenti
delle prigioni fanno pensare al popolo veneziano delle vedute di Canaletto e,
anche qui, segnalano un decisivo mutamento dell’arte, attenta alla dimensione
sociale nel suo complesso e non più alla dimensione monumentale dei singoli
personaggi.
Certo che i personaggi delle
Carceri, quasi schiacciati dalla enormità degli spazi, non hanno più nulla di
veneziano e lungi dal conversare amabilmente o essere presi da qualche attività
di lavoro o di commercio, se ne stanno lubrichi e abbandonati sui rocchi diruti
delle colonne e si aggirano sfaccendati sotto gli archi di muraglie fatiscenti.
Essi sono insomma quel popolo di fannulloni, perditempo e delinquenti che
affollavano la Roma di Piranesi e che oggi, naturalmente, sono scomparsi,
scacciati dal trionfo dell’ordine e del decoro. L’interpretazione delle Carceri
come creazione di uno spirito tenebroso e romantico prima del tempo non è
peraltro la sola che è stata avanzata : ve ne sono di autorevoli che guardano a
Piranesi cultore della storia romana e di Tito Livio, grazie anche alla
influenza del fratello Angelo e anche al suo interesse per il Vico, sollecitato
già a Venezia dalla figura dell’Abate Lodoli. In questo quadro l’artista, come
confermano i suoi scritti, appare il difensore del primato dei romani e di
quella loro “Magnificenza” che derivava soprattutto dalle grandi capacità
tecniche e costruttive. E poiché egli paragonava il rigore costruttivo alla
struttura del diritto romano e delle sue leggi, ecco che le Carceri, in un
senso propriamente illuministico, diventano l’esempio di una giustizia
superiore, erede di Roma e ripensata nella modernità, in un momento, cioè, in
cui l’Esprit des Lois di Montesquieu si diffondeva in Italia. L’amore per Roma,
la sua storia e la sua cultura indussero poi Piranesi a polemizzare duramente
con quelli che privilegiavano invece la Grecia, come Winkelmann e soprattutto
come il francese Mariette con il quale egli tenne un lungo carteggio su questi
temi. E fu così strenua la sua difesa di Roma che egli si impegnò a sostenere
la sua autonomia dai greci e al tempo stesso una diversa discendenza che è poi
quella degli etruschi. Se ora torniamo a possibili influssi misteriosi dello
spirito di Piranesi vagante per palazzo Tomati, le sue tesi storiche sulla
importanza degli etruschi potrebbero diventare decisive per spiegare il mio
arrivo e la mia carcerazione a Montefiascone, un comune che, secondo il nome,
avrebbe origini falische, ma che si trova comunque in un territorio che più etrusco non potrebbe essere. Ma visto
che sono tornato ai segreti poteri degli spiriti, aiutato anche da quell’alone
di mistero che avvolge la civiltà etrusca e i suoi reperti, è forse il caso di
tornare al Piranesi esoterico e alle opere che più risentono di questo aspetto
della sua arte. Sebbene non esista più, il Caffè degli Inglesi doveva almeno in
parte nascere da questa ispirazione : per l’esecuzione dei suoi affreschi
l’incisore aveva eseguito alcune tavole dense di simboli e figure proprie
dell’antica arte egizia, per cui Iside e Horus, obelischi e piramidi e tutto un
repertorio sapienziale vagamente massonico popola le pareti di quel locale che
diventa il luogo preferito degli intellettuali inglesi in visita in Italia. Il
caffè si trovava in piazza di Spagna, all’altezza di via delle Carrozze, dunque
non lontano da quel suo studio di palazzo Tomati che Piranesi aveva riempito di
antichi reperti e il fatto che rievocasse l’Egitto ci sembra oggi significativo
perché è proprio dall’Egitto che il nostro artista faceva discendere gli
Etruschi e lo stile “Toscano”, per lo meno se crediamo ai suoi scritti teorici.
Ma è noto che l’opera più legata a queste segrete tematiche è proprio l’unica
che il nostro artista ha realizzato e portato a termine come architetto e cioè
la piazza dei Cavalieri dell’Ordine di Malta e la. chiesa di Santa Maria del Priorato. Già
il luogo, l’Aventino o Mons Serpentarius, che egli ben conosceva, era legato ai
rituali di una arcaica Dea dei serpenti, ma anche i committenti, i Cavalieri
dell’Ordine di Malta, potevano essere considerati i depositari di antichi
segreti sapienziali. Totalmente cinta da mura, la piazza si chiude e sembra
assumere un carattere iniziatico agli occhi dell’osservatore, invitato a
meditare sui numerosi simboli dei rilievi. Tra questi è ricorrente la torre,
immagine alchemica che fa parte anche del repertorio araldico di Papa Clemente
XIII Rezzonico, veneziano, protettore del suo conterraneo Piranesi. Ma troviamo
le spade e le altre armi dei Cavalieri, le catene delle loro navi e gli
obelischi egizi, le croci greche e quelle a otto punte dei Cavalieri, l’aquila
bicipite e la testa di Giano Bifronte che guarda al passato e alla tradizione
sapienziale egizio-etrusca, ma anche al futuro, cioè a quella rosacrociana e
massonica. Nella stele centrale domina poi il tridente di Nettuno che allude ai
tre elementi base dell’alchimia secondo Paracelso, lo zolfo, il sale e il
mercurio e fa anche pensare al quartiere romano dove la storia di Piranesi ha
preso forma e cioè proprio quel Tridente che inizia con due oggetti tipicamente
alchemici, la Porta e l’Obelisco a piazza del Popolo. Come è noto c’è una sola
minuscola apertura in questa suggestiva recinzione ed è il piccolo oculo che si
trova sul portone di ingresso al Priorato, dal quale, accostando l’occhio, si
vede in lontananza la cupola di San Pietro.
E’ una sorta di segno di obbedienza
a papa Clemente XIII e un riconoscimento del fatto che, per quanto ci si
sbizzarrisca in simboli e misteri, a Roma non si sfugge all’autorità del
pontefice. Al di là di quel portone, la chiesa di Santa Maria del Priorato,
oltre un giardino labirintico, accoglie naturalmente immagini cristiane, la
Vergine, San Basilio e San Giovanni Battista accanto a quelle tipiche
dell’Ordine, le rose, la croce greca, il globo e il sarcofago dell’altare. E
sebbene questo ci allontani dal nostro pur debole filo conduttore, proprio il
sarcofago può essere inteso come un vaso alchemico, così come lo intende Marcel
Duchamp nel suo Grande Vetro, dove lo associa, non certo a caso, all’Ascensione
della Vergine. E qui troviamo anche la tomba di Piranesi e la sua statua
scolpita da Angelini, ricordando però che subito dopo la morte il corpo
dell’artista fu collocato nella chiesadi Sant’Andrea delle Fratte, presso
palazzo Tomati e vi rimase per un lungo periodo, prima di essere traslata
sull’Aventino. Ma tornando alle
Carceri ricordiamo che Piranesi aveva
studiato e visitato direttamente il carcere Mamertino e il Tulliano, spazi
sotterranei e angusti, a partire dai quali aveva immaginato un edificio enorme che
saliva fino al Campidoglio, con una serie infinita di scale e di terrazze da cui
pendevano corde e catene e dove si profilavano con le loro ombre minacciose le
macchine di tortura. In definitiva il fatto che le incisioni delle Carceri
sembrino descrivere uno spazio senza fine introduce il sospetto che l’esistenza
intera appaia a Piranesi come un carcere, per lo meno l’esistenza di quel mondo
che sembra invadere la sua fantasia e inquietare la sua mente. E’ un
suggerimento che posso prendere in considerazione, anche se per la verità il
mio ricordo di palazzo Tomati e della via Felice è in sostanza un ricordo
felice, al quale non è certo estranea la bellezza del Tridente. E d’altra parte
la bellezza non è certo garanzia di libertà e la nostra anima è così piena di
angosce e di stranezze che riusciamo a sentirci prigionieri anche nei luoghi
più straordinari, magari per il semplice fatto di essere carcerieri di se
stessi. Se questo è il caso della via Felice e di palazzo Tomati, allora anche
quella vita può aver ricordato un carcere, magari non quello della seconda
edizione ma invece della prima che, pur
essendo sempre una prigione, è almeno più luminosa e meno disperante. La mia
sensazione è comunque che devo alla
ispirazione carceraria del grande incisore veneziano e al suo spiritello vagante
la spinta a partecipare alla detenzione creativa nella Rocca Papalina di
Montefiascone con il conseguente ritrovamento di piazza e palazzo Frigo. Non è
un caso, secondo me, che io abbia accettato questa carcerazione
quasi “senza rendermene conto”, cioè per dirla alla Duchamp, “Sans le savoir”,
indotto evidentemente da potenze ancestrali che conoscevano il da farsi al posto mio. Non
dovrebbe neppure stupire più di tanto la detenzione nelle prigioni di
Montefiascone, cioè in quel territorio etrusco che, come abbiamo visto,
affascinava Piranesi. Infatti sebbene il nome della città rimandi ai Falisci le
fondamenta della Rocca papalina sono certamente etrusche come pure i resti di
località circostanti ad esempio Cornos o Cornossa ed è nota peraltro l’origine
etrusca della vicina Bolsena, da alcuni identificata con l’antica Volsinii mentre altri propendono per Orvieto. Certo è
che proprio a Bolsena si trovava un tempio dedicato alla dea etrusca Northia, ove
ogni anno veniva piantato sul muro un chiodo, con l’evidente significato
dell’ineluttabile passare del tempo e del compiersi del destino il che avvicina
chiaramente Northia alla Fortuna dei romani. Gli storici ritengono che la dea
Northia fosse legata anche all’elemento acquatico e che pertanto il suo tempio
in quel luogo ricoprisse la funzione sacrale di proteggere il lago. In ogni
caso l’interesse di Piranesi per l’antica civiltà etrusca era anche dovuto al
fatto che molte vicende storiche di essa, comprese quelle che riguardavano Northia
e Bolsena, sono state narrate da Tito Livio, l’autore latino preferito
dall’artista, che senza dubbio guardava agli etruschi anche per il fascino
esoterico che li avvolgeva e tuttora li avvolge. E insomma, riassumendo il
nostro percorso di ricerca e mettendo insieme tutte le misteriose influenze, le forze nascoste e
gli enigmatici messaggi che abbiamo
trovato grazie a Giovambattista Piranesi, a palazzo Tomati, alla Rocca di
Montefiascone e a palazzo Frigo, si può
senz’altro concludere che la parte più rilevante delle cose che ci condizionano
nella vita non le conosciamo. O per lo meno evitiamo di conoscerle, convinti di
essere noi a fare le scelte che contano. Nel nostro caso, ad esempio, i luoghi
rivestono una importanza straordinaria che emerge chiaramente se soltanto
pensiamo ad essi non come semplici porzioni di spazio ma come preziosi
contenitori di significati e di memorie.
Che poi quei significati e quelle memorie siano pure entità mentali o
si costituiscano invece come vere e proprie quantità di energia, magari anche
misurabili con strumenti che non abbiamo ancora inventato, non ha molta
importanza ai fini del nostro discorso, anche se, come si è capito, propendo
per la seconda soluzione. Non c’è luogo che non parli al nostro pensiero e alla
nostra volontà con i suoi antichi e potenti caratteri simbolici e formali,
sebbene occorra impegno e dedizione per mettersi in ascolto. Per non parlare
dei nomi, che nel suono e nella scrittura, per il solo fatto di essere scritti o pronunciati
ci riportano alla mente cose lontane o altri
nomi dimenticati che ora ci sembrano delle rivelazioni. Sono sicuro che gli
artisti, i pittori, gli scultori, gli scrittori che sono passati da palazzo
Tomati, da Canina a Thorwaldsen da Piranesi a Von Humboldt, sapevano bene tutto
questo. Sapevano che l’arte, per la sua particolare
capacità di conoscere e di descrivere ma anche per il dono che ha di agire “senza sapere”, riesce a cogliere i
significati più autentici e profondi, talvolta molto diversi tra loro e accostarli
in forme equilibrate e così mirabili da non sembrare vere. E in fin dei conti è
proprio per questa via misteriosa, che essa perviene alla verità. E d’altra parte, quando vediamo bellissime
immagini e segni perfettamente in accordo tra di loro, che danno l’impressione
di un vero e proprio mondo compiuto, esistente di per sé, non riusciamo ad
allontanare del tutto il sospetto che quello sia soltanto il sogno di un
artista. E così, da palazzo Tomati a palazzo Frigo, dalla via Felice alla Rocca
Papalina, dal Tevere al lago di Bolsena, molto tempo è passato e molte cose
sono accadute, talvolta misteriose e altre volte semplici e banali ed io,
avanzando tra il vero e il falso, ho cercato di capirci qualcosa. Certamente
non ci sono riuscito del tutto e avrò preso per vere delle finzioni,
considerando invece ingannevoli delle notizie plausibili. Ma tutto quello che
ho annotato potrà essere un buon argomento di cui parlare piacevolmente con
qualcuno. Che è poi la cosa più importante.