venerdì 22 dicembre 2017

Accade a volte di arrivare in un luogo sconosciuto e di avere la strana sensazione di esserci già stati. E’ un po’come nei sogni, quando case, strade, città che non abbiamo mai visto ci appaiono d’un tratto familiari senza che riusciamo a capirne la ragione.   Alcuni raccontano anche di aver sognato strade e piazze sulle cui targhe era riportato il loro nome, con la piacevole constatazione di essere diventati famosi, ma anche quella meno gratificante di essere morti. A me è capitato qualcosa del genere, ma non in sogno e proprio in questa città. Anche se il nome di una piazza, se Dio vuole, non era il mio, ma mi era comunque familiare. E non è stato affatto difficile spiegarmi la presenza di quel nome per averlo sentito e ripetuto, non soltanto durante l’infanzia, alla quale sempre più spesso ritorno con la memoria, ma anche per almeno vent’anni della mia vita. Più che di una spiegazione, si è trattato di un’illuminazione, di un ritorno improvviso del passato che mi faceva sentire a casa e faceva rivivere situazioni e persone cui non pensavo più, ma che evidentemente non avevo dimenticato. A dire la verità, si comincia a pensare agli spiriti quando si avvicina il momento di entrare in quella indesiderata categoria. Un mio vecchio amico sostiene con una certa convinzione che gli spiriti sono in grado di influenzare il funzionamento di macchine e motori ad alimentazione elettrica, come ascensori e scaldabagni e aggiunge che in particolare le madri, in virtù della loro potenza generatrice, si divertano a bloccare  gli scaldabagni dei figli e gli ascensori nei quali i figli salgono e scendono. Va da sé che possono fare questo genere di scherzi solo dopo morte. Devo ammettere che nonostante il mio scetticismo in proposito, non mancano episodi singolari e coincidenze che sembrano dar ragione al mio vecchio amico, soprattutto per quanto riguarda gli ascensori e le madri. Ma tornando al filo del discorso, devo ora sottolineare il fatto che mia madre, mio padre ed io, da quando avevo soltanto sei anni, abbiamo abitato in una casa d’affitto, i cui proprietari avevano proprio quel nome e il fatto di averlo ritrovato qui, in una piazza di Montefiascone, mi ha ricordato che ne conoscevo già da allora l’origine. La città di Montefiascone d’altra parte non mi era sconosciuta per il fatto che almeno due o tre volte l’anno venivo scarrozzato come un bagaglio appresso da Roma a Firenze e da Firenze a Roma sulla Fiat 1500 verde bottiglia di mio padre lungo una via Cassia che era una serie di salite, discese e curve senza fine.  La sosta a Montefiascone era pertanto obbligatoria almeno per tirare il fiato e non meno obbligatorio era fermarsi ogni volta a Radicofani  dove puntualmente alla macchina fumava il motore. Qualche volta sui tornanti ci sorprendeva il temporale e poiché la pioggia si trasformava in una tenda di vetro, bisognava fermarsi alla vecchia stazione di posta, dove comunque penetrava un vento pieno d’acqua. Allora tutti scendevano dalle automobili grondanti e si lamentavano imprecando contro il maltempo, ma almeno scoprivano di avere qualcosa in comune. A Roma la famiglia Frigo abitava all’ultimo piano del suo palazzo insieme ad alcuni parenti molto  giovani, dei quali due ragazzi intorno ai dodici anni e due sorelle più grandi, molto legate tra loro e anche molto riservate tanto da sembrare un po’ malinconiche.  Frequentavano la piccola scuola di suore dove io andavo alle elementari, ma erano già al liceo ed io le vedevo salire, con la loro semplice divisa, una gonna e un golfino blu, lungo le scale che portavano ai piani alti dell’istituto, dove alla fine scomparivano. Era una visione angelica che oggi potrebbe ricordarmi un dipinto di Blake o di Previati e che allora forse prefiguravo, per le strane mescolanze del tempo, che ancora non conosciamo.  Sta di fatto che a un certo punto la visione luminosa delle ragazze che salivano, svaniva ed io ero sospinto nelle classi del primo piano, insieme ad una immonda marmaglia di mocciosi. Nonostante le mie illuminazioni e visioni mistiche, o forse proprio per quelle, avevo solo un’idea molto vaga di quanto fossero importanti i “piani” nella vita. Nella mia classe c’era un compagno enorme, molto più grande della sua età, che si chiamava Sclavi. Sclavi aveva la pessima abitudine, per farsi bello con le ragazzine, di sollevare da terra i compagni di dimensioni normali e quando prendeva me tirandomi su per le ascelle, la cosa mi seccava moltissimo.  Di solito o questi bambini precoci in seguito si fermano nella crescita e in questo caso, ma solo in questo caso, mi piacerebbe rincontrarlo, per dargli delle pacche sulla testa, anche se alla mia età certe cose non si fanno  perché risultano incomprensibili. Ma questo non c’entra col filo del discorso, che ho smarrito di nuovo, e devo invece ricordare che la famiglia Frigo, prima della ben nota nazionalizzazione del 1962, era proprietaria di alcune società elettriche e, non a caso, erano presenti in quello stesso edificio la società elettrica sarda e la società elettrica di Sicilia, rispettivamente al primo e secondo piano,  con gli impiegati che si vedevano lavorare sui loro tavoli dalle finestre sul cortile e dal terrazzo a ballatoio che girava tutto intorno, pieno di iris e di gerani.  


Da lì, guardando verso l’alto, intravedevo gli ampi, meravigliosi terrazzi dell’ultimo piano, veri giardini pensili a un passo dal cielo, da cui si vedeva la città intera e più da vicino il Quirinale, con la bandiera che sventolava come su una nave, e quell’assurdo visionario manufatto interrotto, quasi incrostato di mattoni che è il tamburo della cupola mai costruita di Sant’Andrea delle Fratte con accanto il folle gioco di equilibrio del campanile. Ma questo, per il momento, non c’entra : l’importante è invece che la presenza di quelle società elettriche, sebbene quelli fossero semplicemente degli uffici e non contenessero al loro interno nessuna turbina e nessun cavo ad alta tensione, avesse comunque a che fare, su un piano puramente concettuale, con le scariche elettriche e mentali e le alchimie del pensiero di cui parlavo prima.  A volte, uno dei ragazzi, il più piccolo, che se non sbaglio si chiamava Piero, mi lanciava un filo dal suo terrazzo, giù nel cortile fino al mio e dopo avere applicato alle estremità due grossi barattoli di latte in polvere vuoti, praticamente parlavamo al telefono. Non avevamo molte cose da dirci ma il gioco era divertente e tutto sommato interclassista. Ciò che oggi mi sembra interessante è  il latte in polvere, un prodotto che non esiste quasi più, almeno credo, e che doveva più che altro sopperire alla indigenza del periodo bellico, finito da meno di dieci anni. A dire la verità, non so bene perché mi trovassi in quel palazzo con i miei genitori. Loro ci si erano trasferiti nel 1952, quando avevo sei anni perché lì  avevano un negozio di scarpe e la famiglia Frigo glielo aveva concesso in affitto, prima della guerra, credo per l’intercessione di mio nonno, che ritengo fosse una delle pochissime persone dotate di senso pratico di tutto il mio albero genealogico, ammesso che ne abbia uno. Per via della antica amicizia con il nonno, i Frigo ci avevano quindi anche affittato un appartamento in quel palazzo bellissimo, cosa che probabilmente non meritavamo, ma di cui  peraltro abbiamo immeritatamente usufruito fino agli anni ottanta, quando il centro storico, compreso quell’edificio illustre è diventato terra di conquista di uffici e sartorie alla moda e le famiglie normali e anonime sono state giustamente relegate in più anonime parti della città, per loro molto più confacenti. Questo tra l’altro mi fa pensare che vi sia un ordine nell’universo ed è un pensiero che va ad aggiungersi a quelli sugli spiriti e le influenze paranormali, che, come abbiamo notato, tendono ad aumentare con l’età. Quanto alla questione delle scarpe, può sembrare strano che una famiglia dedichi tanta attenzione e fatica a qualcosa che ha a che fare soltanto con i piedi, ma a parte il fatto che la richiesta di scarpe da parte dei piedi è una cosa sicura e può diventare fonte di sostentamento per degli scarpari, è incredibile quante invenzioni, fantasie e variazioni siano possibili nel progettare e confezionare un paio di scarpe, per lo meno in quegli anni, e devo dire che fin da piccolo sono stato affascinato da questo mondo pedestre, anche soltanto leggendo i titoli che venivano dati  ai diversi modelli e che erano ordinatamente riportati a penna sulle scatole che li contenevano. Il “Gioiello” ad esempio aveva un tacco basso di maiolica dorata e il “Messaggio segreto” una specie di plico in pelle arrotolato sul collo, mentre il modello “Pollaiolo”si ispirava ad un affresco del famoso pittore del XV secolo. Si trattava insomma di un microcosmo pressoché infinito di personaggi che, sebbene fossero associati a delle scarpe, avevano qualcosa di favoloso. Anche la posizione delle scarpe all’interno delle scatole mi piaceva e provo una sorta di sollievo rassicurante notando che essa non è cambiata affatto in settanta anni, neppure per le scarpe più moderne che d’altra parte rassomigliano molto spesso a quelle del passato.  Le scarpe, infatti, che ovviamente sono due, sono disposte in modo da opporsi dalla parte del collo, con le suole verso l’esterno, ma una rovesciata rispetto all’altra, in modo che la punta della prima corrisponda al retro della seconda e  che sia utilizzato al meglio lo spazio del contenitore. La cosa più bella e delicata, poi, cioè una cosa quasi commovente, è un foglio leggero di carta velina che avvolge del tutto una delle scarpe e lascia un po’ più scoperta  l’altra, che in questo modo può essere rapidamente estratta per la prova. E quest’ultima è sempre  la scarpa destra in quanto proprio la destra deve essere provata per prima poiché il piede destro è generalmente più grande del sinistro ed è  dunque l’ostacolo da superare al fine di garantire l’utilizzabilità delle scarpe in questione.  Ma questo è un altro discorso e, per riprendere ancora una volta il filo logico che mi è nuovamente sfuggito, posso  ricordare che quel negozio di calzature si trovava al piano terreno di palazzo Tomati, al livello della strada, era parte cioè di un edificio che aveva ospitato gli studi di grandissimi artisti dei secoli passati. Fra il settecento e l’ottocento infatti, come è testimoniato dalla grande targa marmorea che tuttora si trova sulla facciata, importanti e famosi personaggi hanno vissuto in quel palazzo e chissà quali idee straordinarie hanno avuto e a quali geniali invenzioni hanno dato vita, riempiendo così stanze ed appartamenti di quelle onde magnetiche e mentali e di quelle presenze elettriche che ho avuto modo di frequentare nel corso dell’infanzia e dell’adolescenza. 


Non so esattamente chi avesse abitato nella casa presa in affitto dai miei genitori che era al secondo piano, come probabilmente ho già detto,avendo appurato soltanto che l’archeologo e architetto Luigi Canina occupava l’ultimo piano, mentre lo scultore Thorwaldsen il primo, senza ulteriori  informazioni  sugli intestatari degli altri piani, compreso Piranesi. Non so in quale modo e quando la famiglia Frigo fosse entrata in possesso di quell’immobile di grande pregio, ma so d’altra parte che il palazzo fu edificato nel XVII secolo per un monsignor Tomati, originario del Piemonte e che nel 1781 era stato acquistato dall’architetto Camillo Buti. L’architetto Buti era noto per aver scoperto e restaurato l’antica villa Negroni, nella zona dell’Esquilino. Questi era poi deceduto in precarie condizioni economiche e la sua vedova era stata costretta a trasformare l’antico palazzo in una pensione che  sarebbe stata particolarmente apprezzata da artisti e intellettuali europei impegnati nel Grand Tour cioè quelli che lo storico  Jorgen Hartmann definisce “uccelli migratori”.  Questa pensione, cioè la casa Buti, fu poi gestita  dalle tre figlie dell’architetto Camillo, le quali,  soprannominate dai clienti Le Tre Grazie,  sposarono tre ricchi ospiti della pensione risolvendo così i loro problemi. Devo ammettere che la presenza di queste tre sorelle mi fa venire in mente le più recenti sorelle di casa Frigo,  conosciute da me, quali ultime proprietarie di palazzo Tomati e il loro aspetto grazioso non meno del forte legame affettivo me le fa paragonare a delle Grazie, anche per essere inseparabili, sebbene fossero soltanto due ed avessero smarrito la terza nel corso dei secoli. Si tratta, credo, di un parallelismo misterioso che rientra certamente nel novero dei segni subliminali di cui attualmente mi occupo, a conferma dei quali c’è anche il dato di fatto inoppugnabile che uno dei pensionanti di casa Buti, lo scultore Thorwaldsen, abbia egregiamente lavorato al tema mitologico delle Tre Grazie, realizzando un’opera di grande bellezza, capace di gareggiare con quella omonima del Canova.  Non so esattamente se, ed eventualmente in che modo, io abbia potuto assorbire le scariche mentali di Thorwaldsen, se mai ne ha lasciate in giro. Si potrebbe dubitarne, considerato il fatto che al pur grande scultore danese è stata imputata una certa freddezza, ma io non asseconderei troppo questo dubbio, ricordando  l’inquietudine e addirittura il timore che mi incuteva il suo busto marmoreo, collocato all’inizio delle scale sopra una lapide celebrativa, tra l’altro proprio davanti all’ascensore. Stando alle tesi del mio vecchio amico non era da escludere l’influenza sotterranea della madre di Thorwaldsen, visto che l’ascensore del palazzo si fermava piuttosto spesso. Devo ammettere che quell’ascensore non era nuovissimo e per questo in armonioso accordo con l’età veneranda dell’edificio, ma non era da escludere il fatto che ormai, essendo morto anche il figlio, la madre di Thorwaldsen finisse per prendersela con l’ascensore di qualcun altro. Comunque al di là dei suoi non comprovati  poteri paranormali, il busto di Bertel Thorwaldsen era un punto di riferimento importante per tutti i pellegrini danesi in visita a Roma. Tra l’altro, nella stessa via Felice e a pochi metri di distanza, abitava l’altro grande danese, Hans Christian Andersen, che spesso andava a trovare l’amico Berthel nel suo studio e qualche volta lo invitava al caffè Greco a bere qualcosa. Infatuati da tante storiche testimonianze, i turisti danesi saltavano allegramente da una lapide all’altra. Era quel genere di turisti che mio padre bonariamente malediva perché generalmente non compravano le scarpe, tanto meno quelle bizzarre e costose che pretendeva di vendere lui.  A onor del vero però, devo ammettere che per un lungo periodo il negozio riuscì a vendere proprio quel genere di scarpe consentendo alla mia famiglia di sopravvivere, avendo come clienti personaggi strampalati e originali di quella che venne definita “Dolce Vita”, cioè attori, pittori, musicisti, truffatori, nani e ballerine ma anche signore normali animate dal legittimo desiderio di calzare delle scarpe comode. La procedura che conduceva alla produzione di un paio di scarpe su misura aveva qualcosa di artistico e per certi versi addirittura di poetico. Oserei affermare che avesse poco da invidiare al lavoro metodico di Piranesi e di Thorwaldsen che, certamente contrariati, ma forse anche divertiti, si vedevano sostituiti da degli scarpari. Tutto cominciava con la misurazione del piede e l’impiego di un curioso panchetto cubico sul quale mio padre, provvisto di foglio e di matita, doveva sedersi a cavalcioni per prendere in esame il piede della cliente. Questo andava a poggiarsi su un apposito cassetto, opportunamente inclinato ed estraibile dal panchetto medesimo e naturalmente mio padre, con la necessaria delicatezza, inseriva il foglio sotto il piede e, contornandolo a matita, ne ricavava l’impronta. Il prezioso foglio, poi, che poteva essere rosa o azzurro, veniva corredato, sotto gli occhi esperti del fantasma di Piranesi, di tutte le notizie utili e, se mia madre notava nella sagoma di quel piede degli orribili bitorzoli, era probabilmente perché il marito si era troppo avvicinato al ginocchio della cliente, il che a quei tempi era roba da film a luci rosse.

 Ma ecco che ho nuovamente smarrito il filo del discorso, ingarbugliandomi con la memoria in una specie di labirinto o invece lo sto inconsapevolmente seguendo, quel filo, visto che il nesso iniziale, palazzo Tomati, palazzo Frigo e tutto il resto non annunciava affatto il percorso da seguire. Ed anzi è possibile che privilegiando una certa ispirazione piuttosto che la logica e associando pensieri apparentemente lontani tra loro, quindi prendendo per buona la famosa indicazione di Lautrémont, si finisca per muovere più in profondità le acque misteriose dei simboli e si favorisca la loro alchimia andando a incidere in quello strato oscuro della immaginazione che era tanto caro al cavalier Piranesi. Che poi l’influenza del suo spirito vagante e quella dei suoi amici possa aiutare il processo alchemico non posso giurarlo, ma posso almeno sperare che il movimento delle acque profonde della mente partorisca qualche buona idea. Aggiungo solo che furono assai meno proficui gli anni successivi al 1960 quando l’esercito agguerrito e anonimo delle scarpe fatte a macchina avrebbe tagliato fuori dal mercato l’attività di famiglia nonostante avesse sede, alquanto inconsapevolmente, nello stesso luogo  in cui aveva vissuto e appassionatamente lavorato il grande incisore. Devo infatti ammettere che tra tanti personaggi importanti che avevano transitato nei secoli in palazzo Tomati, lasciando certamente i loro spiritelli a galleggiare nell’aria vicino ai soffitti di quelle stanze e di quei corridoi, Giovambattista Piranesi è certamente il più interessante. E lo dico al di là della opinione che si può avere del suo altissimo valore di artista, pensando piuttosto alla forza magnetica delle sue visioni, alla insondabile intensità elettrica delle sue invenzioni, e insomma a tutto ciò che si collega alla sua sapienza alchemica, strettamente connessa alla tecnica della incisione e alle sue relazioni con la massoneria di cui molto si è ragionato anche a proposito delle sue opere e dei suoi committenti, evocando inevitabilmente segreti e racconti di carattere esoterico. Si può anche soltanto immaginare che un tipo simile non abbia lasciato tracce subliminali nei luoghi da lui frequentati, ricordi e memorie stratificate in grado di condizionare e influenzare i posteri, voci sospese tra le pareti che ancora vagamente si percepiscono, sia pure nel leggero ticchettio delle tastiere dei computer negli uffici? Io credo di no. D’altra parte nel 1961 Marguerite Yourcenar avrebbe scritto pagine illuminanti su di lui riguardo alle famose incisioni delle Carceri,  immaginando e descrivendo il carattere solitario saturnino dell’autore, le sue ossessioni di ricercatore melanconico e lo strano fascino di quelle prigioni impressionanti nelle quali la precisione prospettica del geometra esperto perveniva a soluzioni paradossalmente irrealistiche. La scrittrice che sette anni più tardi sarebbe divenuta famosa con il  libro L’Opera al Nero, guardava a Piranesi e alle sue incisioni, come al lento lavoro  di chi affronta e si sporca con la Nigredo, operando a lungo e con impegno incessante fino a generare il chiarore dell’immagine. Si tratta qui di una concezione dell’arte come faticosa elaborazione della materia e del pensiero non troppo lontana dalla più ironica e dissacrante visione di Marcel Duchamp che la sintetizza nella  ben nota Macinatrice di Cioccolata. E in effetti le Carceri, soprattutto nella seconda edizione, dove le ombre si appesantiscono e la trama architettonica si complica, si presentano davvero come un oscuro labirinto dove le figure tormentose dei torturati e i busti marmorei degli eroi sembrano equivalersi. Come nelle tavole del Campo Marzio e in quelle della antica via Appia sembra che il tentativo di Piranesi di dare ordine alla storia finisca in un insensato accumulo di reperti senza alcuna logica plausibile e il dominio di Crono, del tutto incomprensibile agli uomini, scarichi su di loro l’enorme peso degli eventi, ingombranti nel loro brutale e irragionevole accadere. Gli storici hanno appurato che l’incisore ha cominciato a concepire le sue Carceri dopo una visita a Ercolano in compagnia dell’amico scultore Corradini. Nato a Mogliano Veneto, il giovane Piranesi, affascinato da Roma e dal Sud, risente tuttavia della grande tradizione pittorica veneziana, in particolare di Giovambattista Tiepolo e questo è del tutto evidente proprio nella prima edizione delle Carceri. Quelle tavole infatti sono veri e propri Capricci, immagini di fantasia, inondate di luce e quasi sul punto di svanire, nelle quali affiora solo debolmente la “terribilità”della seconda edizione. Anche in quella, d’altra parte, il gusto chiaroscurale e la complessità della prospettiva dal basso riprendono quella tradizione, evocando Paolo Veronese e per altri versi le scenografie dei Bibiena. Perfino le piccole figure che popolano gli antri e i camminamenti delle prigioni fanno pensare al popolo veneziano delle vedute di Canaletto e, anche qui, segnalano un decisivo mutamento dell’arte, attenta alla dimensione sociale nel suo complesso e non più alla dimensione monumentale dei singoli personaggi.


 Certo che i personaggi delle Carceri, quasi schiacciati dalla enormità degli spazi, non hanno più nulla di veneziano e lungi dal conversare amabilmente o essere presi da qualche attività di lavoro o di commercio, se ne stanno lubrichi e abbandonati sui rocchi diruti delle colonne e si aggirano sfaccendati sotto gli archi di muraglie fatiscenti. Essi sono insomma quel popolo di fannulloni, perditempo e delinquenti che affollavano la Roma di Piranesi e che oggi, naturalmente, sono scomparsi, scacciati dal trionfo dell’ordine e del decoro. L’interpretazione delle Carceri come creazione di uno spirito tenebroso e romantico prima del tempo non è peraltro la sola che è stata avanzata : ve ne sono di autorevoli che guardano a Piranesi cultore della storia romana e di Tito Livio, grazie anche alla influenza del fratello Angelo e anche al suo interesse per il Vico, sollecitato già a Venezia dalla figura dell’Abate Lodoli. In questo quadro l’artista, come confermano i suoi scritti, appare il difensore del primato dei romani e di quella loro “Magnificenza” che derivava soprattutto dalle grandi capacità tecniche e costruttive. E poiché egli paragonava il rigore costruttivo alla struttura del diritto romano e delle sue leggi, ecco che le Carceri, in un senso propriamente illuministico, diventano l’esempio di una giustizia superiore, erede di Roma e ripensata nella modernità, in un momento, cioè, in cui l’Esprit des Lois di Montesquieu si diffondeva in Italia. L’amore per Roma, la sua storia e la sua cultura indussero poi Piranesi a polemizzare duramente con quelli che privilegiavano invece la Grecia, come Winkelmann e soprattutto come il francese Mariette con il quale egli tenne un lungo carteggio su questi temi. E fu così strenua la sua difesa di Roma che egli si impegnò a sostenere la sua autonomia dai greci e al tempo stesso una diversa discendenza che è poi quella degli etruschi. Se ora torniamo a possibili influssi misteriosi dello spirito di Piranesi vagante per palazzo Tomati, le sue tesi storiche sulla importanza degli etruschi potrebbero diventare decisive per spiegare il mio arrivo e la mia carcerazione a Montefiascone, un comune che, secondo il nome, avrebbe origini falische, ma che si trova comunque in un territorio  che più etrusco non potrebbe essere. Ma visto che sono tornato ai segreti poteri degli spiriti, aiutato anche da quell’alone di mistero che avvolge la civiltà etrusca e i suoi reperti, è forse il caso di tornare al Piranesi esoterico e alle opere che più risentono di questo aspetto della sua arte. Sebbene non esista più, il Caffè degli Inglesi doveva almeno in parte nascere da questa ispirazione : per l’esecuzione dei suoi affreschi l’incisore aveva eseguito alcune tavole dense di simboli e figure proprie dell’antica arte egizia, per cui Iside e Horus, obelischi e piramidi e tutto un repertorio sapienziale vagamente massonico popola le pareti di quel locale che diventa il luogo preferito degli intellettuali inglesi in visita in Italia. Il caffè si trovava in piazza di Spagna, all’altezza di via delle Carrozze, dunque non lontano da quel suo studio di palazzo Tomati che Piranesi aveva riempito di antichi reperti e il fatto che rievocasse l’Egitto ci sembra oggi significativo perché è proprio dall’Egitto che il nostro artista faceva discendere gli Etruschi e lo stile “Toscano”, per lo meno se crediamo ai suoi scritti teorici. Ma è noto che l’opera più legata a queste segrete tematiche è proprio l’unica che il nostro artista ha realizzato e portato a termine come architetto e cioè la piazza dei Cavalieri dell’Ordine di Malta  e la. chiesa di Santa Maria del Priorato. Già il luogo, l’Aventino o Mons Serpentarius, che egli ben conosceva, era legato ai rituali di una arcaica Dea dei serpenti, ma anche i committenti, i Cavalieri dell’Ordine di Malta, potevano essere considerati i depositari di antichi segreti sapienziali. Totalmente cinta da mura, la piazza si chiude e sembra assumere un carattere iniziatico agli occhi dell’osservatore, invitato a meditare sui numerosi simboli dei rilievi. Tra questi è ricorrente la torre, immagine alchemica che fa parte anche del repertorio araldico di Papa Clemente XIII Rezzonico, veneziano, protettore del suo conterraneo Piranesi. Ma troviamo le spade e le altre armi dei Cavalieri, le catene delle loro navi e gli obelischi egizi, le croci greche e quelle a otto punte dei Cavalieri, l’aquila bicipite e la testa di Giano Bifronte che guarda al passato e alla tradizione sapienziale egizio-etrusca, ma anche al futuro, cioè a quella rosacrociana e massonica. Nella stele centrale domina poi il tridente di Nettuno che allude ai tre elementi base dell’alchimia secondo Paracelso, lo zolfo, il sale e il mercurio e fa anche pensare al quartiere romano dove la storia di Piranesi ha preso forma e cioè proprio quel Tridente che inizia con due oggetti tipicamente alchemici, la Porta e l’Obelisco a piazza del Popolo. Come è noto c’è una sola minuscola apertura in questa suggestiva recinzione ed è il piccolo oculo che si trova sul portone di ingresso al Priorato, dal quale, accostando l’occhio, si vede in lontananza la cupola di San Pietro.

 E’ una sorta di segno di obbedienza a papa Clemente XIII e un riconoscimento del fatto che, per quanto ci si sbizzarrisca in simboli e misteri, a Roma non si sfugge all’autorità del pontefice. Al di là di quel portone, la chiesa di Santa Maria del Priorato, oltre un giardino labirintico, accoglie naturalmente immagini cristiane, la Vergine, San Basilio e San Giovanni Battista accanto a quelle tipiche dell’Ordine, le rose, la croce greca, il globo e il sarcofago dell’altare. E sebbene questo ci allontani dal nostro pur debole filo conduttore, proprio il sarcofago può essere inteso come un vaso alchemico, così come lo intende Marcel Duchamp nel suo Grande Vetro, dove lo associa, non certo a caso, all’Ascensione della Vergine. E qui troviamo anche la tomba di Piranesi e la sua statua scolpita da Angelini, ricordando però che subito dopo la morte il corpo dell’artista fu collocato nella chiesadi Sant’Andrea delle Fratte, presso palazzo Tomati e vi rimase per un lungo periodo, prima di essere traslata sull’Aventino.  Ma tornando alle Carceri  ricordiamo che Piranesi aveva studiato e visitato direttamente il carcere Mamertino e il Tulliano, spazi sotterranei e angusti, a partire dai quali aveva immaginato un edificio enorme che saliva fino al Campidoglio, con una  serie infinita di scale e di terrazze da cui pendevano corde e catene e dove si profilavano con le loro ombre minacciose le macchine di tortura. In definitiva il fatto che le incisioni delle Carceri sembrino descrivere uno spazio senza fine introduce il sospetto che l’esistenza intera appaia a Piranesi come un carcere, per lo meno l’esistenza di quel mondo che sembra invadere la sua fantasia e inquietare la sua mente. E’ un suggerimento che posso prendere in considerazione, anche se per la verità il mio ricordo di palazzo Tomati e della via Felice è in sostanza un ricordo felice, al quale non è certo estranea la bellezza del Tridente. E d’altra parte la bellezza non è certo garanzia di libertà e la nostra anima è così piena di angosce e di stranezze che riusciamo a sentirci prigionieri anche nei luoghi più straordinari, magari per il semplice fatto di essere carcerieri di se stessi. Se questo è il caso della via Felice e di palazzo Tomati, allora anche quella vita può aver ricordato un carcere, magari non quello della seconda edizione ma invece della prima  che, pur essendo sempre una prigione, è almeno più luminosa e meno disperante. La mia sensazione  è comunque che devo alla ispirazione carceraria del grande incisore veneziano e al suo spiritello vagante la spinta a partecipare alla detenzione creativa nella Rocca Papalina di Montefiascone con il conseguente ritrovamento di piazza e palazzo Frigo. Non è un caso,  secondo me,  che io abbia accettato questa carcerazione quasi “senza rendermene conto”, cioè per dirla alla Duchamp, “Sans le savoir”, indotto evidentemente da potenze ancestrali  che conoscevano il da farsi al posto mio. Non dovrebbe neppure stupire più di tanto la detenzione nelle prigioni di Montefiascone, cioè in quel territorio etrusco che, come abbiamo visto, affascinava Piranesi. Infatti sebbene il nome della città rimandi ai Falisci le fondamenta della Rocca papalina sono certamente etrusche come pure i resti di località circostanti ad esempio Cornos o Cornossa ed è nota peraltro l’origine etrusca della vicina Bolsena, da alcuni identificata con l’antica Volsinii  mentre altri propendono per Orvieto. Certo è che proprio a Bolsena si trovava un tempio dedicato alla dea etrusca Northia, ove ogni anno veniva piantato sul muro un chiodo, con l’evidente significato dell’ineluttabile passare del tempo e del compiersi del destino il che avvicina chiaramente Northia alla Fortuna dei romani. Gli storici ritengono che la dea Northia fosse legata anche all’elemento acquatico e che pertanto il suo tempio in quel luogo ricoprisse la funzione sacrale di proteggere il lago. In ogni caso l’interesse di Piranesi per l’antica civiltà etrusca era anche dovuto al fatto che molte vicende storiche di essa, comprese quelle che riguardavano Northia e Bolsena, sono state narrate da Tito Livio, l’autore latino preferito dall’artista, che senza dubbio guardava agli etruschi anche per il fascino esoterico che li avvolgeva e tuttora li avvolge. E insomma, riassumendo il nostro percorso di ricerca e mettendo insieme tutte  le misteriose influenze, le forze nascoste e gli enigmatici  messaggi che abbiamo trovato grazie a Giovambattista Piranesi, a palazzo Tomati, alla Rocca di Montefiascone  e a palazzo Frigo, si può senz’altro concludere che la parte più rilevante delle cose che ci condizionano nella vita non le conosciamo. O per lo meno evitiamo di conoscerle, convinti di essere noi a fare le scelte che contano. Nel nostro caso, ad esempio, i luoghi rivestono una importanza straordinaria che emerge chiaramente se soltanto pensiamo ad essi non come semplici porzioni di spazio ma come preziosi contenitori di significati e di memorie.

Che poi quei significati  e quelle memorie siano pure entità mentali o si costituiscano invece come vere e proprie quantità di energia, magari anche misurabili con strumenti che non abbiamo ancora inventato, non ha molta importanza ai fini del nostro discorso, anche se, come si è capito, propendo per la seconda soluzione. Non c’è luogo che non parli al nostro pensiero e alla nostra volontà con i suoi antichi e potenti caratteri simbolici e formali, sebbene occorra impegno e dedizione per mettersi in ascolto. Per non parlare dei nomi, che nel suono e nella scrittura,  per il solo fatto di essere scritti o pronunciati ci riportano alla mente  cose lontane o altri nomi dimenticati che ora ci sembrano delle rivelazioni. Sono sicuro che gli artisti, i pittori, gli scultori, gli scrittori che sono passati da palazzo Tomati, da Canina a Thorwaldsen da Piranesi a Von Humboldt, sapevano bene tutto questo.  Sapevano che l’arte, per la sua particolare capacità di conoscere e di descrivere ma anche per il dono che ha di agire  “senza sapere”, riesce a cogliere i significati più autentici e profondi, talvolta molto diversi tra loro e accostarli in forme equilibrate e così mirabili da non sembrare vere. E in fin dei conti è proprio per questa via misteriosa, che essa perviene alla verità.  E d’altra parte, quando vediamo bellissime immagini e segni perfettamente in accordo tra di loro, che danno l’impressione di un vero e proprio mondo compiuto, esistente di per sé, non riusciamo ad allontanare del tutto il sospetto che quello sia soltanto il sogno di un artista. E così, da palazzo Tomati a palazzo Frigo, dalla via Felice alla Rocca Papalina, dal Tevere al lago di Bolsena, molto tempo è passato e molte cose sono accadute, talvolta misteriose e altre volte semplici e banali ed io, avanzando tra il vero e il falso, ho cercato di capirci qualcosa. Certamente non ci sono riuscito del tutto e avrò preso per vere delle finzioni, considerando invece ingannevoli delle notizie plausibili. Ma tutto quello che ho annotato potrà essere un buon argomento di cui parlare piacevolmente con qualcuno. Che è poi la cosa più importante.


Face to Face Montefiascone Carceri Papaline Agosto 2017




domenica 5 febbraio 2017


Galleria nazionale di Arte Moderna  Roma   16-22 gennaio 2017
Sensibile Comune
a cura di Ilaria Bussoni,, Nicolas Martino Cesare Pietroiusti

Performance e Video   "Dolce Sélavy" di Andrea Lanini
con la collaborazione di Mauro Giovanni Piccinini