lunedì 26 novembre 2018


                                                                    Il  CUBOTUBISTA



                                                  Psicodramma in un rotolo dell’Artista Cubista



Personaggi ed interpreti  :

  


                                                   LE SCALE   :    Marcel  Duchamp

                                                   LA  RRRROTAZIONE  :   Cesare Pietroiusti

                                                   UN ORINATOIO  :   Richard Mutt

                                                   LE MACCHINE DA CUCIRE  :   Isidore LucienDucasse (Lautréamont )

                                                   LE SIGNORINE  :   Pablo Picasso 

                                                   LE BRACHE  :  Gorge Braaque

                                                   UN  TUBISTA  :  Fernand Léger

                                                   UN  MERLO  : Maurice Merlau Ponty

                                                   UN  PONTE  :  Vincent Van Gogh

                                                   THE  FAART  :  Mauro Cuppone    



Il Cubotubista

Il cubista sul cubo                                                              
Prova a leggere il rullo
E non capisce un tubo
Per essere un po’ grullo
E nel rotar si culla
Ma quando il rullo ruota
E rotolando rulla
Quassù deve salire
E poi restare in quota
Se ha qualcosa  da dire
Per salire sul cubo
Ci vogliono le scale                                                           
Per scenderle da nudo
La mutanda non vale                                                         
E muto devi andare
Giù nel fondo a cercare
Mutando posizione
Trasmuta la visione
E per mutare l’arte
Ci vuol la rrrrrotazione                                                                      
Ed è un fatto epocale
Non c’è nulla di male
Ma è opera mentale
Rrruotare un orinale.                                                        
Macchine da cucire
In giro ad Avignone
Sul tavolo chirurgico
Incontran l’ombrellone                                                   
E quelle signorine
Non sembravano artistiche
Ma maschere neolitiche
Con sembianze analitiche                                                          
E se cali le brache
Girando per Parigi
Giochi l’asso di fiori
E in mezzo a tutti i grigi
Ci son mille colori.                                                             
Non va tanto leggero
Chi In tuta i corpi intuba
Non va tanto leggero
Ingranaggi potenti
Pesanti per davvero
Che sembrano d’acciaio                                                       
Come fare altrimenti
A esaltar l’Operaio?                                                            
Altra mente ci vuole
Per volar sulla vetta
Ma un merlo che cinguetta
Sul  ponte di Langlois
Ci canta la lezione
Circa la percezione                                                           e
Che ancora non si sa.
Chi ci vede le forme
Del monte Saint Victoire                                                
E chi si dà le arie
La relatività.                                                                      
Ma una cosa è sicura
Che il mondo fatto a pezzi                                           
Spezzando la figura
Ci dà la libertà
E con o senza attrezzi
Con molti o scarsi mezzi
E onirici intermezzi
Grida senza paura
E senza più censura                                                         
Che tutto si può faaar (t)!!!!


domenica 25 febbraio 2018


…….io mi sento ancora uno di loro.    
La verità è che a un certo punto della vita e cioè ad un punto nel quale la vita stessa appare nella sua evidente inconsistenza e inutilità, si comincia a credere o a voler credere nei segni di una qualche persistenza oltre il divenire delle cose, i quali segni altro non sono che i deboli ganci ai quali appendere, per lo meno per un po’, quella vita che si è rivelata così penosamente fragile. Tra questi appigli, anch’essi a pieno titolo facenti parte del linguaggio, sostituitosi recentemente interamente al pensiero, vi sono certamente i nomi. Ora, che razza di nome è quello di via Margutta? Beh, vi sono in proposito diverse spiegazioni e quella che passeggiando quietamente per la via ad essa parallela, in una rete di strade nella quale di vere e proprie parallele ve ne sono assai poche, subito mi viene in mente, è quella legata al teatro locale D’Alibert, nel quale storie e buffonerie del Morgante e del Margutte erano rappresentate in altri tempi per la gioia del popolo. Ma ve ne sono altre che, pur risalendo anch’esse alla letteratura del Pulci, ritengono che invece il nome di Margutte fosse appiccicato per ischerzo addosso ad un noto barbiere, sito con la sua bottega nella strada medesima e noto dal canto suo per la sgraziata enormità del corpo e delle membra. Senza contare la derivazione singolare dal latino “maris guttae”, vale a dire “gocce di mare”, per indicare con romanesca ironia un ignobile rivolo di scarichi maleodoranti che dal Pincio discendevano a rallegrar le nari dei poveri residenti. Ma dove sarebbe in tal caso il sollievo esoterico del nome? Dove il suo pietoso lenire l’insopportabile sensazione di insensatezza della propria esistenza? Beh, forse soltanto nel far credere che in virtù di quel nome, di quel suono e insomma di quella magica parola, i fantasmi buoni e cialtroni di quei giganti e forse anche di quello smisurato barbiere, continuino a fare avanti e indietro per quella stretta via in cerca, gli uni, di quel rosso vellutato palcoscenico sotto le luci e l’altro di enormi barbe da pelare, senza più trovare nulla, per essersi prolungata la loro mortifera vita di spettri oltre la dolorosa vita vera dei vivi e della storia.  



Memoria di Roma

Capitolo I

Camminavo per caso e senza uno scopo preciso per la via che dalla barcaccia semiaffondata punta dritta alla mirabile cupoletta di Raffaello , quando fui assalito dal nebuloso volteggiare dei ricordi, come spesso accade a chi non ha altro da fare. La mattinata era fresca ma soleggiata e sebbene fosse piacevole il passeggio nonché il respiro lieve di un’aria ventilata, quell’insorgere della memoria era al tempo stesso una lenta salita della malinconia, per cui si ha un bel dire con il filosofo  che conoscere è ricordare perché non è affatto detto che ricordare sia sempre conoscere. Così mi prese una struggente nostalgia dell’infanzia, della città serena o presunta tale che ora non è più o che semplicemente io non vedo più, del dolce sorriso materno, dei giochi poveri e allegri al viale dei bambini e dei pittori da strapazzo che gioiosi appendevano i loro discutibili quadri malamente incorniciati a via Margutta.  Si trattava di una sorta di paesana festa dell’arte di seconda mano, di una colorata parodia della pittura, scimmiottata in modo strampalato e ingenuo da individui abilissimi a mettersi un basco di traverso sulla zucca e un foulard al collo con studiata nonchalance, ma non altrettanto abili a dipingere una qualsiasi cosa su una tela.  Ma la cosa più malinconica di questa rimembranza, che in questo caso mi pare, a dir la verità, essere anche conoscenza, è il fatto che a sessanta anni di distanza dal mio primo incontro con quella amena banda di imbrattatele, io mi sento ancora uno di loro.    

lunedì 15 gennaio 2018



Mondo Arte n.32 del 15-01-2018 in via dei Monti Tiburtini si configura in tutta evidenza come un tributo tardivo al discutibile film di Jean Negulesco Three Coins in The Fountain. Va da sè che la Fontana qui evocata non è semplicemente la Fontana di Trevi, progettata dal Salvi e realizzata nel XVIII secolo dopo una serie di proposte di altri artisti che si sono susseguite includendo ciascuna una particolare interpretazione del contesto romano, ma anche l'ormai famoso orinatoio di Marcel Duchamp che con il contesto romano non aveva nulla a che fare. Il numero Tre invece ha molto a che fare con l'opera dell'artista francese che ha voluto impiegarlo nella sequenza dei tre pistoni del Grande Vetro, allusivi alla Trinità, come pure nei tre rulli della sua bellissima Macinatrice di cioccolata, vale a dire della materia nello stato alchemico della Nigredo. E non è forse inutile ricordare che la Sposa del Grande Vetro, accompagnata appunto dai pistoni trinitari, tende a coincidere in tutta  probabilità con la Vergine nel momento della Ascensione, magistralmente e trasversalmente interpretata da Anita Ekberg in abito talare che sale, con sbalorditiva velocità di una ascensore, nell'inclinato spessore della cupola di san Pietro, realizzata con doppia calotta alla maniera del Brunelleschi, certamente per favorire Federico Fellini, considerato il fatto che in "mente dei" il tempo non esiste.