domenica 25 febbraio 2018


…….io mi sento ancora uno di loro.    
La verità è che a un certo punto della vita e cioè ad un punto nel quale la vita stessa appare nella sua evidente inconsistenza e inutilità, si comincia a credere o a voler credere nei segni di una qualche persistenza oltre il divenire delle cose, i quali segni altro non sono che i deboli ganci ai quali appendere, per lo meno per un po’, quella vita che si è rivelata così penosamente fragile. Tra questi appigli, anch’essi a pieno titolo facenti parte del linguaggio, sostituitosi recentemente interamente al pensiero, vi sono certamente i nomi. Ora, che razza di nome è quello di via Margutta? Beh, vi sono in proposito diverse spiegazioni e quella che passeggiando quietamente per la via ad essa parallela, in una rete di strade nella quale di vere e proprie parallele ve ne sono assai poche, subito mi viene in mente, è quella legata al teatro locale D’Alibert, nel quale storie e buffonerie del Morgante e del Margutte erano rappresentate in altri tempi per la gioia del popolo. Ma ve ne sono altre che, pur risalendo anch’esse alla letteratura del Pulci, ritengono che invece il nome di Margutte fosse appiccicato per ischerzo addosso ad un noto barbiere, sito con la sua bottega nella strada medesima e noto dal canto suo per la sgraziata enormità del corpo e delle membra. Senza contare la derivazione singolare dal latino “maris guttae”, vale a dire “gocce di mare”, per indicare con romanesca ironia un ignobile rivolo di scarichi maleodoranti che dal Pincio discendevano a rallegrar le nari dei poveri residenti. Ma dove sarebbe in tal caso il sollievo esoterico del nome? Dove il suo pietoso lenire l’insopportabile sensazione di insensatezza della propria esistenza? Beh, forse soltanto nel far credere che in virtù di quel nome, di quel suono e insomma di quella magica parola, i fantasmi buoni e cialtroni di quei giganti e forse anche di quello smisurato barbiere, continuino a fare avanti e indietro per quella stretta via in cerca, gli uni, di quel rosso vellutato palcoscenico sotto le luci e l’altro di enormi barbe da pelare, senza più trovare nulla, per essersi prolungata la loro mortifera vita di spettri oltre la dolorosa vita vera dei vivi e della storia.  



Memoria di Roma

Capitolo I

Camminavo per caso e senza uno scopo preciso per la via che dalla barcaccia semiaffondata punta dritta alla mirabile cupoletta di Raffaello , quando fui assalito dal nebuloso volteggiare dei ricordi, come spesso accade a chi non ha altro da fare. La mattinata era fresca ma soleggiata e sebbene fosse piacevole il passeggio nonché il respiro lieve di un’aria ventilata, quell’insorgere della memoria era al tempo stesso una lenta salita della malinconia, per cui si ha un bel dire con il filosofo  che conoscere è ricordare perché non è affatto detto che ricordare sia sempre conoscere. Così mi prese una struggente nostalgia dell’infanzia, della città serena o presunta tale che ora non è più o che semplicemente io non vedo più, del dolce sorriso materno, dei giochi poveri e allegri al viale dei bambini e dei pittori da strapazzo che gioiosi appendevano i loro discutibili quadri malamente incorniciati a via Margutta.  Si trattava di una sorta di paesana festa dell’arte di seconda mano, di una colorata parodia della pittura, scimmiottata in modo strampalato e ingenuo da individui abilissimi a mettersi un basco di traverso sulla zucca e un foulard al collo con studiata nonchalance, ma non altrettanto abili a dipingere una qualsiasi cosa su una tela.  Ma la cosa più malinconica di questa rimembranza, che in questo caso mi pare, a dir la verità, essere anche conoscenza, è il fatto che a sessanta anni di distanza dal mio primo incontro con quella amena banda di imbrattatele, io mi sento ancora uno di loro.